il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2023
Il prossimo 9 settembre sono 25 anni dalla morte di Lucio Battisti. E Crocifisso Dentello ha scritto un racconto con le parole delle sue canzoni
Seduto in quel caffè, può darsi io non sappia cosa dico. Ma il mio mestiere è vivere la vita, che sia di tutti i giorni o sconosciuta. Mi ritorna in mente la mia adolescenza in una Brianza velenosa: un mondo tutto chiuso in una via e un cinema di periferia a sognare Dustin Hoffman, Al Pacino, la Dunaway. A casa al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti. I miei genitori ce la mettevano tutta per evitare le buche più dure. Mia madre si lamentava dei surgelati rincarati, mio padre era ossessionato da questioni vegetali, di risparmio e anche di praticità. Io sognavo un altro destino. Davanti a un brodo caldo che follia, i miei mi dicevano sempre: “Prendila così, non possiamo farne un dramma”. Io rispondevo piccato: “Davanti a me c’è un’altra vita, la nostra è già finita”. La mia ansia di riscatto non era una stella che al mattino se ne va. Invidiavo i miei amici con un ritmo fluente di vita nel cuore mentre io ero diventato come una giornata uggiosa, impegnato a non dire niente per non tradir la mente. Eppure non smettevo di domandarmi, come può uno scoglio arginare il mare. Cercavo una risposta perché intuivo che era nascosta da qualche parte. Ero lontano dalle discese ardite e le risalite della mia generazione, ma sapevo che all’orizzonte c’erano fiumi azzurri e colline e praterie. Un giorno che avevo rotto col passato, trovai il coraggio per un tuffo dove l’acqua è più blu, niente di più. Ho sentito cantare in un bar, canzoni e fumo e allegria. Tra gli avventori si materializzò lei: le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi le sue calzette rosse. Da una donna per amico si trasformò pian piano in una donna selvaggia donna, un controsenso affascinante. Ho dormito lì fra i capelli suoi, io insieme a lei ero un uomo. Compresi sin dal primo istante che il nostro amore non era un fuoco che col vento può morire. Poi ogni notte ritornar per cercarla in qualche bar, domandare “ciao, che fai” e uscire insieme a lei. Avevo superato la paura d’esser preso per mano. Ora sentivo anch’io il profumo di un amore puro. Ricordo le biciclette abbandonate sopra il prato e poi noi due distesi all’ombra. Ma c’è qualcosa che non scordo: la cantina buia dove noi respiravamo piano. Ero sempre ansioso sul futuro del nostro amore ma lei, spazientita, ogni volta replicava: “Lo
scopriremo solo vivendo”. Una sera che i miei erano fuori casa, la invitai per un brindisi galante: il giradischi, le luci rosse, champagne ghiacciato e l’avventura può iniziare ormai. Ma non si presentò. La attesi, la chiamai ma era come sparita. Poi un sms sul cellulare in cui mi informava che si prendeva una pausa di riflessione. E un consiglio accorato: “Siccome è facile incontrarsi anche in una grande città, cerca di evitare i posti che conosco e che frequenti anche tu”. I miei capirono subito che qualcosa si era spezzato ma fingevo noncuranza: non c’è tensione, non c’è emozione, nessun dolore. Invece avevo il cuore malato e pensavo che davanti a me c’era solo il tempo di morire. Pensavo a tutti i giorni belli passati insieme ma il ricordo, come sai, non consola. Mi domandavo cosa l’avesse delusa. Forse una frase sciocca, un volgare doppio senso. Oppure il mio amore per la verità. Lo so, divento antipatico, ma è sempre meglio che ipocrita.
Un pomeriggio davanti alla Feltrinelli mia madre credette di scorgerla in compagnia di un ragazzo davanti alla vetrina delle novità di poesia. Dissi perentorio a mia madre: “Ti stai sbagliando, chi hai visto non è, non è Francesca. Se c’era un uomo poi no, non può essere lei”. Mio padre, esasperato, replicò che il mio era proprio un tarlo, una malattia. Ma come poteva comprendere che tutti quei baci che avevo già dato non vanno via con un bucato? Certo, non potevo continuare a struggermi in tormentosi masochismi. Una sera mi sono alzato, mi son vestito, e sono uscito solo, solo per la strada. Ho camminato a lungo senza meta. Non riuscivo più a soffocare la sana gelosia. La donna, la vera donna, è quella che ti resta vicina. Donna, pensavo, tu sei mia, e quando dico mia, dico che non vai più via. Dovevo abbandonarmi senza più timori e affrontarla. Ho suonato alla sua porta. “Scusa”, le dissi, “se son venuto qui questa sera. Da solo non riuscivo a dormire perché di notte ho ancor bisogno di te. Fammi entrare per favore”. Lei, impassibile, finse di scacciare con la mano una mosca. Allora con voce rotta le mormorai: “Non hai mai visto un uomo piangere. Apri bene gli occhi perché tu ora lo vedrai”. Piansi. Commossa, implorò il mio perdono. “È stato solo un gioco e non un fuoco”, scandì affranta, “lo sai che t’amo, io ti amo veramente”. “Amore mio”, le sussurrai stringendola in un abbraccio, “ti ho perso ieri e oggi ti ritrovo già”. “Sembra di stare in una canzone di Battisti”, esclamò divertita. Le sorrisi e annuii: “Capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi, emozioni”.