la Repubblica, 30 agosto 2023
Tutti i segreti di Cesare Pavese
o l’anima rigata per ragioni mie, sono a pezzi (…) pagherei a peso d’oro un assassino che mi accoltellasse nel sonno (…) tiro avanti per conto mio, sperando che sia presto tutto finito». Trentasei ore prima di uccidersi, Cesare Pavese scriveva queste drammatiche parole in una lettera all’amico di una vita, Giuseppe Vaudagna, compagno al liceo classico “D’Azeglio” di Torino e poi a lui vicino negli anni. Era venerdì 25 agosto 1950. Lo scrittore sarebbe stato trovato morto la domenica mattina, in una stanza dell’Hotel Roma dove si era avvelenato. Questo foglio ingiallito, solcato da parole di una grafia elegante e spigolosa, è venuto ora alla luce e fa parte della donazione della famiglia Vaudagna alla Fondazione Cesare Pavese di Santo Stefano Belbo, paese natale dell’autore di alcuni tra i maggiori capolavori della letteratura italiana del Novecento, ma anche sommo traduttore dall’inglese.
Un fragile rettangolo di carta, il concentrato di uno spaventoso dolore. Ci viene concesso di sfogliare anche la celebre copia dei Dialoghi con Leucò che Pavese pose sul comodino, prima di suicidarsi, quella con l’ultimo messaggio a matita: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Lo scrittore aveva trascritto in basso i numeri di pagina, calcandoli, e ogni tanto compaiono a margine brevi tratti diagonali: appunti a sé stesso, nella sua opera forse più densa e profonda. L’alluvione del 1994 minacciò seriamente questo cimelio, poi restaurato e protetto con la massima cura.
Una straordinaria massa di materiale inedito pavesiano, insieme alla lettera d’addio, è confluita alla Fondazione Pavese nel corso nell’ultimo anno, frutto di tre donazioni: la Vaudagna, appunto, oltre alla biblioteca con i 6 mila volumi di Lorenzo Mondo e al fondo Oreste Molina, capo dell’ufficio tecnico della casa editrice Einaudi a cui Pavese a volte consegnava i libri che aveva usato per le traduzioni. «Un tesoro inaspettato, un privilegio, e il tassello che mancava» ci spiega il direttore Pierluigi Vaccaneo. «Noi in realtà cercavamo la bobina con l’incisione della voce di Pavese, registrata in un’intervista radiofonica a Leone Piccioni il 12 giugno 1950, per il programma “Scrittori al microfono”. Una voce che non è conservata da nessuna parte, così come di Pavese non esistono filmati, solo poche fotografie. Fernanda Pivano, quella voce la raccontava profonda come di un attore, a lei ricordava l’intonazione vocale di Hemingway. La bobina purtroppo non c’è, ma in compenso abbiamo trovato quelli che possiamo definire i ferri del mestiere del Pavese traduttore, la testimonianza del suo metodo».
Si tratta, tra gli altri, dei tre volumi del Dedalus di Joyce, dell’ Autobiografia di Alice B. Tokles di Gertrude Stein e del David Copperfield di Dickens, che Cesare Pavese tradusse integralmente per Einaudi e Frassinelli negli anni Trenta. Dopo la laurea su Whitman, tradurre era la sua unica fonte di reddito. Fu lui a far conoscere per primo in Italia, insieme a Elio Vittorini e Fernanda Pivano, parte della grande letteratura anglo americana: per ilMoby Dick di Melville, a Pavese spettarono mille lire. E poi Steinbeck, Lewis, Anderson, Faulkner, Dos Passos, persino due fumetti di Topolino. Nei testi del Fondo Molina, però, c’è di più. Lo spiega il professor Iuri Moscardi, della City University di New York, autore dello studio critico e filologico che sarà presentato negli Stati Uniti il 27 settembre, e che Repubblica è in grado di anticipare in esclusiva mondiale.
«Pavese annotava meticolosamente i passaggi del suo lavoro nei testi che stava traducendo, in rigorose fasi successive. Dapprima sottolineava a matita, e poi in rosso e blu, i punti nodali, i dubbi e i problemi nelle loro ipotesi di soluzione. Quindi cancellava parte dei segni e scriveva altre annotazioni, anche rivolte a sé stesso, promemoria che legavano coincidenze e discrepanze del testo. Prima che questi volumi venissero alla luce, potevamo solo ipotizzare il “metodo Pavese”: ora ne abbiamo le prove. Lui usò quei libri insieme a dizionarie grammatiche». Ci è stato permesso di sfogliarli, con enorme emozione. Scorrono tra le dita nella loro preziosa, inestimabile delicatezza. All’interno, qualche foglietto bianco e un quadrifoglio. Non occorre un esperto per comprendere come James Joyce avesse messo adura prova Pavese, con tutti quei giochi di parole, filastrocche, nonsense e termini inventati di sana pianta. A pagina 100 del Dedalus è sottolineato, con uno spesso segno rosso, il vocabolo “Lotts”, nella frase “he saw the word Lotts on the wall”; «…una difficoltà che mi è riuscito impossibile di sormontare», scrive Pavese in una lettera inviata a un destinatario sconosciuto per chiedere aiuto. «Il traduttore non aveva capito, e non poteva sapere, che Lotts era il marchio di un grande magazzino inventato da Joyce», spiega Moscardi. «Per questo non lo tradusse».
Nel labirinto di appunti del “codice Pavese” altri nodi balzano agli occhi, così come qualche impaccio mal risolto. Segni rossi sotto i vocaboli “nicens”, “tuckoo”, “platt”, “mallorcan”, oppure la domanda su come rendere il gioco joyciano tra “cancer” e “Canker”. «Traducendo Dickens, Pavese si confonde di fronte a “the best of my belief” – precisa il professor Moscardi – e traduce “una fede profonda”, anziché “a mio avviso”. Inoltre, non riesce a tradurre “dumb-foundered”. Del suo lavoro mi ha colpito ogni cosa, comprese le incertezze». A Iuri Moscardi dobbiamo anche l’importante studio sulla prima traduzione di Fernanda Pivano dell’Antologiadi Spoon River, di Edgar Lee Masters: «Si è dimostrato quanto fosse stato profondo il contributo di Pavese».
La trama delle annotazioni che spicca nel Fondo Molina disvela una poetica, è una sorta di diario del mestiere di traduttore e scrittore. «Sono tre pause oziose, descrittive, che non hanno a che fare colla costruzione», appunta Pavese a margine diTess of the D’Ubervilles di Thomas Hardy. E ancora: «Il parlar bene ha il brutto effetto che impaccia la passione», e questo potrebbe benissimo essere un frammento de Il mestiere di vivere. In un altro passaggio, il traduttore si chiede se sia meglio dire «nel caso qualcosa accadesse» oppure «se qualcosa accadrà»: il travaglio senza fine delle revisioni, il crocevia delle scelte che ogni autore ben conosce. Osserviamo, non senza incanto, l’ordito di segni e accenni: «Tagliare ispirazione», «in italiano i nomi delle chiese». Lunghi elenchi di numeri di pagine dove tornare, collegare, rivedere. Punti interrogativi a matita. Il famoso “mito americano” nacque anche così, nel bivio delle possibilità linguistiche.
Il Pavese traduttore sapeva destreggiarsi con maestria, come quando chiamò Zanni un personaggio di Shakespeare, collegandolo alla tradizione della commedia dell’arte italiana per renderlo più immediato. Scrisse, in una lettera a Valentino Bompiani: «Per tradurre bene, bisogna innamorarsi del materiale verbale di un’opera, e sentirsela rinascere nella propria lingua con l’urgenza di una seconda creazione. Altrimenti è un lavoro meccanico che chiunque può fare». Per Cesare Pavese era anche un’immersione nella realtà e nella verità degli autori americani e inglesi, un atto di cultura politica nei tempi più cupi del fascismo. Un segno di libertà. «Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi».