la Repubblica, 30 agosto 2023
La chimera presidenzialista
Come un fiume carsico, la grande riforma costituzionale emerge a tratti per poi scomparire e riapparire più in là. Si parla da anni di “semi presidenzialismo” o di “premierato” senza che l’opinione pubblica abbia ben chiaro il significato dei termini: capisce in sostanza che non si tratta di questioni prioritarie, tipo il lavoro, i bassi salari, le pensioni, il prezzo della benzina.
Eppure la riforma costituzionale è o sarebbe l’architrave del rinnovamento delle istituzioni, la cornice al cui interno trova posto tutto il resto. Ad esempio, la semplificazione burocratica e legislativa, lo stesso riordino del Parlamento e magari una legge elettorale.
Al punto in cui siamo, ben pochi scommetterebbero pochi euro sul successo della grande riforma in era Meloni. Nel 2016 fu una buona fetta del Pd a tagliare la strada a Renzi che commise l’errore di trasformare in un plebiscito su se stesso il referendum sul progetto volto a sancire la fine sostanziale dell’assetto bicamerale. Perché mai oggi l’opposizione, da Elly Schlein a Conte fino all’estrema sinistra, con l’esclusione del solo Renzi (ma non di Calenda) dovrebbe dare via libera alla leader di FdI? Per Giorgia Meloni sarebbe un successo storico, persino eccessivo. Per il centrosinistra vorrebbe dire congedarsi dall’equilibrio istituzionale che ha retto per decenni la Repubblica, pur nel variare delle formule e dei colori politici.
Del resto, le idee sono poco chiare anche e forse soprattutto a destra. Si è passati dal modello semi-presidenziale francese a un’ipotesi di elezione diretta del presidente del Consiglio (appunto il “premierato”, ossia il renziano “sindaco d’Italia”). Senza peraltro che si veda dove finisce la necessità di sventolare una bandiera politica e dove comincia la volontà di arrivare a un risultato nell’interesse delle istituzioni. Il primo scenario sembra al momento di gran lunga prevalente. Senza contare che sul tavolo c’è anche la riforma delle autonomie caldeggiata dal ministro Calderoli e di difficile incastro senza un progetto complessivo di ammodernamento. In definitiva, tutto lascia pensare che una riforma radicale non ci sarà: niente elezione diretta del premier, e a maggior ragione niente elezione popolare del presidente della Repubblica. In compenso molta retorica in campagna elettorale. Poi, dopo il voto europeo della primavera ’24, si vedrà.
Nel frattempo, per non correre rischi, l’opposizione ha sollevato il tema tutt’altro che pretestuoso dei poteri del capo dello Stato. Come dire l’arma definitiva. Se mai le Camere approvassero uno dei progetti di cui si parla, il Quirinale perderebbe molte delle sue prerogative. Si dirà che il Parlamento è sovrano nel riscrivere la Costituzione. Ma davvero si crede che in questo clima, con una maggioranza accusata a torto o a ragione di connivenza con tutto l’estremismo di destra europeo, diventi plausibile una riforma che taglia le prerogative di Mattarella come presidente “di garanzia”? Chi lo pensa tende all’ingenuità. È più facile che il presidenzialismo diventi un argomento retorico di dibattito nei prossimi mesi, con la destra che vorrà mostrarsi innovatrice, persino con una punta di avventurismo, e la sinistra che assumerà un profilo conservatore, forse troppo. Ognuno parlerà al proprio elettorato.
Una soluzione intermedia ci sarebbe, ma sembra prematura. Il costituzionalista Ceccanti (e altri con lui) non si stanca di offrire una soluzione tedesca nel senso del “cancellierato”. Priva quindi di una formale elezione diretta del premier/cancelliere, ma con una serie di meccanismi costituzionali che garantiscono forza e potere a chi guida la compagine e stabilità al governo. Niente di nuovo sotto il sole: se ne parla da anni e se ne tornerà a parlare.