Il Messaggero, 29 agosto 2023
Intervista a Eraldo Affinati
«Cosa ne farò dei romanzi e delle poesie lette? A cosa mi serviranno?». Comincia da qui, da questa legittima preoccupazione intellettuale, Delfini, vessilli, cannonate, l’autobiografia letteraria dello scrittore romano Eraldo Affinati da oggi in libreria (HarperCollins). Progetto ambizioso, molto raffinato e carico di emozioni, il prolifico autore 67enne ricordiamo La città dei ragazzi, L’uomo del futuro. Sulla strada di Don Milani e Via dalla pazza classe raccoglie attorno a ventuno nuclei tematici più di duecento autori, spaziando dai grandi classici a poeti misconosciuti, firmando un manifesto alla lettura che guarda alle giovani generazioni con affetto e non senza preoccupazione. Il cuore dell’autore batte all’Esquilino, rievoca l’infanzia romana «giocando a pallone davanti al Colosseo» e riflette sulla fondazione dell’associazione Penny Wirton, legando ogni lettura alle emozioni vissute: «Gli scrittori di cui parlo compongono la famiglia etico-estetica in cui mi rispecchio: Lev Tolstoj dichiara l’inutilità degli esami. Joseph Conrad lenisce la solitudine. Paul Celan illumina il regno delle ombre. Cesare Pavese ci fa capire chi siamo. Con Silvio D’Arzo ho conosciuto mia moglie. Grazie a Milo De Angelis ho riletto Lucrezio».
Affinati, cos’è per lei la letteratura?
«Qualcosa di vivo. Non è mai stata una bacheca di trofei. Piuttosto sangue che scorre. Aria da respirare. Tempo da vivere».
Sin dalla prefazione, parla ai giovani, un «patrimonio perduto, un orizzonte offuscato». Una battaglia persa?
«Bisogna contagiare i ragazzi con le nostre passioni. Non ci si può limitare ad assegnare loro un compito scolastico. Io ho insegnato lettere per tanti anni a adolescenti degli istituti professionali che molto spesso non avevano mai posseduto un libro. Eppure, quando gli presentavo I Malavoglia di Giovanni Verga, Il richiamo della foresta di Jack London, Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, erano entusiasti».
Aveva ragione Albert Camus, leggendo si entra in una zona di rischio?
«Sì, perché leggere sviluppa lo spirito critico, provoca tensione conoscitiva, inquietudine, intensità. Chi legge impara a non accontentarsi delle facili risposte. Si abitua piuttosto alla complessità. Per questo non sarà mai risolto, ma sempre in cammino».
Lei è cresciuto davanti al Colosseo, ha insegnato a Testaccio e c’è molta Roma nei suoi versi. Come se la passa la Città Eterna?
«Nelle poesie dedicate all’Esquilino batte il cuore profondo del libro. Quando cammino sotto i portici di Piazza Vittorio e ripenso al mercato all’aperto dove mi portava mia madre, o torno al Colle Oppio, nel punto in cui giocavamo a pallone, le pietre mi parlano. Sono stato battezzato a Santa Maria Maggiore. Ho venduto i gelati al Brancaccio. Ho comprato i lupini dal fusagliaro di piazza Dante. Per me Roma, nel suo fondo oscuro, non è cambiata. Gli autobus hanno spesso funzionato a singhiozzo, le strade sono sempre state piene di buche, l’immondizia la ricordo spesso ai lati dei marciapiedi».
Tutto immutato?
«L’unica cosa diversa sono gli immigrati. Una volta in Via Carlo Alberto c’era solo un negozio cinese, che vendeva ombrelli, all’angolo con Via Rattazzi. Ora è pieno. E questo, dal mio punto di vista, ha dato una nuova spinta alla nostra città».
La Penny Wirton per lei cosa significa?
«Alla Penny Wirton, un’associazione che ho fondato con mia moglie, Anna Luce Lenzi, insieme ad altri volontari, insegniamo gratuitamente la lingua italiana agli immigrati: uno a uno, senza classi, senza voti. All’inizio stavamo nella chiesa di San Saba, all’Aventino. Adesso, dopo alterne vicende, operiamo nell’Ostello Universitario di Casal Bertone, messo a nostra disposizione dalla Regione Lazio. Prima eravamo quattro gatti, ora siamo centinaia soltanto a Roma e in Italia una sessantina di associazioni si ispirano al nostro stile educativo basato sull’accoglienza e sul sorriso».
Fra le pagine ricorda le lezioni che ha tenuto nel carcere di Reggio Calabria. Crede che la pena debba essere riabilitativa?
«Se la pena non è riabilitativa diventa solo punitiva. Questa consapevolezza però non è naturale, va acquisita. La scuola diventa fondamentale: se non ci pensiamo noi, che abbiamo dato i natali a Cesare Beccaria, chi altri dovrebbe farlo?».
«La scelta della fede cristiana dovrebbe essere un atto di volizione, non una polizza d’assicurazione». Lei crede?
«Io voglio credere. Nel modo dantesco: «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi, / e questa pare a me sua quiditate» (Paradiso, XXIV). Una volta domandai a un mio scolaro perché non facesse religione. Dichiarò di essere arrabbiato con Dio. Aveva pregato tanto affinché il nonno non morisse e non era stato ascoltato. Cercai di fargli capire che la preghiera non va considerata come un contratto. La domanda conta più della risposta».
Affinati, esiste ancora il canone letterario al tempo dei booktokers?
«Nell’epoca digitale non ha più alcun senso. Ma ciò non significa che non esista. Su questo ci sarebbe da scrivere un altro libro: ma chi lo leggerebbe?»