Corriere della Sera, 29 agosto 2023
I segreti di Rachel Cusk
Estate. In cima a un antico edificio parigino piuttosto malridotto, in un appartamento modernissimo che si affaccia sui tetti del Marais, la scrittrice forse più ammirata e studiata degli ultimi anni – di certo, dai suoi colleghi scrittori – aspira una sigaretta elettronica mentre racconta della sua nuova vita in un Paese dove «le persone di oltre cinquant’anni sono trattate con considerazione, al contrario dell’Inghilterra dove diventano invisibili». Piedi nudi, jeans bianchi e camicia di seta nera, Rachel Cusk ha il fisico esile e nervoso di una ballerina classica, un bel viso dai tratti minuti egualmente scolpiti, e un modo di fare ispido anche se cortese. Dopo circa un’ora di conversazione la frase: «Desiderare di piacere agli altri corrompe tutto», mi colpirà come una delle possibili sintesi della sua postura intellettuale e personale.
A 56 anni, Cusk, nata in Canada da genitori inglesi e cresciuta prima a Los Angeles e poi nel Suffolk, è un’autrice prolifica e dal percorso singolare, le cui opere includono sette romanzi tradizionali, due memoir incendiari, una trilogia rivoluzionaria, e il recentissimo La seconda casa. In questo testo metà strada tra il monologo e il romanzo epistolare, una donna, rivolgendosi a un interlocutore fuori scena (il poeta americano Robinson Jeffers), riflette in termini filosofici sullo sconquasso emotivo che le provoca la vicinanza di un grande artista: un celebre pittore che la donna ha invitato a soggiornare in una dependance della sua proprietà isolata che condivide col marito e la giovane figlia.
La seconda casa ricalca le orme di Lorenzo in Taos, il memoir della patrona delle arti Mabel Dodge Luhan sulla visita di D.H. Lawrence nella sua proprietà del New Mexico, nel 1922. E chi ha seguito il percorso creativo di Cusk sa che l’autore di L’amante di lady Chatterley è una sua vecchia ossessione, lo scrittore che «ha mostrato alle donne come scrivere in modo non patriarcale», e che ha insegnato a lei, in particolare, a «schierarsi con gli istinti invece che con il decoro». Dunque: un’influenza letteraria che deve risalire almeno ai due memoir sulla maternità e sul divorzio — Il lavoro di una vita e Aftermath — la cui franchezza spinta fino all’indecenza scatenò una reazione così violenta da parte di critici e lettori, da far ammutolire Cusk per qualche tempo. Poi, dal trauma, la rinascita: l’ammiratissima trilogia — Resoconto, Transiti, Onori — in cui la protagonista alter ego della scrittrice, in un momento di transizione della propria vita (post-divorzio), rimane completamente passiva mentre si fa filtro di storie altrui: monologhi di gente incontrata più o meno per caso, le cui vicissitudini e osservazioni compongono un mosaico di frammenti potentemente rivelatori della natura umana.
È stato come se con la trilogia Cusk avesse risposto a chi l’aveva attaccata: non vi è piaciuto quando mi sono mostrata per quello che sono, una donna in conflitto con ruoli tradizionali della femminilità? Eccovi accontentati: mi annullo, sparisco. Se poco fa l’abbiamo chiamata una rivoluzione, è perché stavolta la critica ha salutato Resoconto, Transiti e Onori come un trionfo, addirittura una reinvenzione del romanzo. Alzi la mano lo scrittore che non li ha studiati. E così, dopo i primi libri nella tradizione naturalistica del romanzo inglese, è nato l’esperimento radicale in passività di questi testi ipnotici, senza trama, con una protagonista silenziata. Al loro posto, monologhi portatori di un caleidoscopio di idee: sull’amore, sul peso delle responsabilità, sul rapporto tra uomini e donne.
«Narrare una storia è un impulso molto umano, è un’abilità che tutti hanno, e che spesso viene scambiata con la scrittura», dice Cusk seduta al tavolo di cucina nell’open space disegnato dal marito Siemon Scammell-Skatz, ex consulente di marketing e ora artista. Quando le chiedo se per il «metodo» della trilogia si sia ispirata a W.G. Sebald, scomponendo il suo ammiratissimo stile, come alcuni pensano, risponde: «No. Se mai, a Omero. Il primo esempio di narrazione orale è l’Odissea, in cui prende forma anche l’idea di raccontare storie come risposta al trauma. È da qui che sono partita. Dall’idea che queste due cose, la narrazione e il trauma, diventino una cosa sola».
L’Odissea, spiega, le ha mostrato come una semplice voce umana sia sufficiente per accedere a diversi momenti del passato senza dover drammatizzare nulla, «senza dover dire: ora siamo qui, stiamo andando là, sto per creare le condizioni per questo… Non c’è più bisogno di nulla di artificiale, di fingere che siamo in questo luogo, in questo periodo e con queste persone… Tutte queste falsificazioni vengono spazzate via in un colpo solo».
Ma il successo ha portato con sé anche qualche irritazione. «Ho scritto Resoconto pensando che forse nessuno sarebbe riuscito a leggerlo. Ed è stato bello vedere il contrario, che sia stato capito e bene accolto. Ma ho trovato frustrante che i miei romanzi precedenti siano stati descritti, in paragone, come convenzionali… quando invece sono parte di un percorso. Le forme convenzionali sono il diretto riflesso delle limitazioni della vita domestica di una donna. È il desiderio di liberarsi dalle costrizioni della maternità e dalla violenza inerente alla struttura del matrimonio, che ha generato la pressione esplosa nei miei memoir. Ed è la distruzione di queste stesse strutture che ha prodotto la trilogia».
L’idea radicale di Rachel Cusk è che «i problemi della creatività non sono altro che problemi del vivere. Tutti i miei pensieri sulla scrittura vengono dall’osservazione della mia vita. È così che ho trovato il mio stile. Inventare storie, costruire archi narrativi e personaggi, non mi ha mai interessato, sono sempre stata una scrittrice molto soggettiva. La scrittura per me nasce dalla distruzione e dal cambiamento. L’ultima cosa che desidero è ripetermi, o scrivere cose non necessarie. E perché qualcosa sia necessario, deve essere nuovo».
È così che due anni fa, preso atto della Brexit, della staticità della vita di campagna che conduceva nel Norfolk e della mentalità dietro gli attacchi ricevuti all’epoca dei memoir, Cusk ha fatto le valigie e si è trasferita con il marito a Parigi. Le due figlie del precedente matrimonio erano partite per l’università. «Cambiare così, nel mezzo della vita, ritrovarsi in una lingua nuova, è come rinascere con una nuova identità. Uno dei vantaggi è che si perde il non necessario della propria lingua, le formule inutili a cui si è fatta l’abitudine. Il mio inglese ne è uscito ripulito. Per un anno ho letto e basta, in francese: Marguerite Duras, Annie Ernaux, Emmanuel Carrère. Anche questo ha contribuito a dare alla mia scrittura una nuova direzione. Il dovere di confrontarmi con grandi argomenti universali, come la maternità, era un’imposizione, un’espressione della condizione femminile. Adesso sono più libera, meno gendered, più capace di pensare in termini filosofici piuttosto che di realtà sociale».
Il nuovo romanzo di cui è a metà stesura rifletterà tutto questo, dice. Motivo di più per domandarle come affronta le aspettative altrui, e le proprie, una scrittrice considerata un’importante innovatrice. «Mi chiedo: questo che scriverò è davvero necessario? Perché abbia legittimità, deve giustificare la propria esistenza. Subito dopo viene lo stile. Il contenuto non ha molta importanza. Il mondo è pieno di contenuto, basta aprire la finestra… In questo la vita è molto coerente, risponde a una struttura. Le riflessioni le tengo a mente, senza annotarle, ho una buona memoria. Poi, quando sono pronta, vado veloce».