La Stampa, 29 agosto 2023
Storia di Capocotta
Quaranta, quarantacinque minuti al massimo dal centro, lasciandosi alle spalle le architetture fasciste del quartiere Eur e si arriva nella spiaggia più popolare di Roma, la più libera d’Europa: Capocotta. Per alcuni "Cape Cod", per altri "il buco". Una striscia di terra del litorale laziale compresa tra la tenuta del presidente della Repubblica di Castel Porziano e Torvaianica. Presidio storico del movimento nudista italiano e della comunità Lgbtqia+, vera e propria istituzione per i cittadini della Capitale. Che ora però rischia di scomparire, perché finita nelle maglie di un pasticcio burocratico, tra i ritardi delle amministrazioni capitoline che si sono succedute negli ultimi anni e la direttiva Bolkestein, la norma europea che regolamenta, tra l’altro, le concessioni demaniali marittime.
Alle prime ore del mattino la spiaggia è già popolata. Marta e Francesca sono appena arrivate in scooter: braccia completamente tatuate, sopracciglia disegnate e addome scolpito. Sentenziano che fa veramente troppo caldo, letteralmente «se schiuma». Hanno da poco staccato dal lavoro e sono corse qui per sfuggire «all’accollo» dei turisti e farsi un bagno al mare. Il chiosco, tra le dune e la spiaggia inizia a servire il pranzo. Claudia, capelli lunghissimi grazie a una extension in forma di coda, si siede al tavolo e mette nella glacette la sua Peroni piccola. L’abito lungo di seta indiana le cinge il corpo statuario di un metro e novanta. Sotto gli ombrelloni di paglia aspetta che arrivino le amiche. Piano piano la comitiva si anima: tutte altissime, tutte elegantissime, brasiliane. E transgender. «Guarda che robetta» fa Mario, sessantenne in pensione, seguendo con lo sguardo le donne che gli sfilano davanti a una a una. Poi si volta verso il cameriere e chiede se i gamberi li stanno ancora pescando o può avere finalmente il suo cartoccio di fritti. Nell’attesa condivide ad alta voce il suo personale editoriale sulla crisi della sinistra: «Io non sono di destra, eh, ma Giorgia (rigorosamente senza cognome, ndr) è brava. Perché se fa capi’dalla gente". Dice che per far politica bisogna avere la "tigna", inteso come qualcosa di più di una semplice testardaggine. «Per carità – aggiunge – pure l’altra, Elly, (sempre senza cognome, ndr) è brava. Ma è troppo moscia». «Me pare che un po’de destra lo sei» ribatte l’amico. Una ragazza ascolta in silenzio, alza un sopracciglio in segno di disappunto ma non replica. È arrivata la pasta al pomodoro di Leo e con l’altra mamma di suo figlio sistema il bambino per il pranzo.
Normale quotidianità domenicale per questo posto da anni laboratorio di convivenza di anime e sensibilità diverse. Una comunità queer nel senso più ampio possibile del termine, dove tutti possono sentirsi accettati. «Figurati che qui ce possono veni’ perfino i laziali» dice Lorenzo, detto Lallo. Catenina al collo, lupetto dell’A.S. Roma di ordinanza, interrompe l’accesa conversazione sull’affaire Lukaku (che qui tiene tutti con l’anima in pena) e racconta di quando questa era la spiaggia degli eccessi. «Succedeva di tutto, serate, balli, feste. . .se quelle dune potessero parlare» chiosa con fare ammiccante. Oggi però è diverso, il lungo spiaggione di sabbia bianca, che si estende per chilometri, è una meta anche per tante famiglie, che possono accedere al litorale senza dover pagare l’ingresso, essere obbligate alla consumazione o a prendere un lettino e ombrellone. Ma il destino di questa spiaggia, presidio di libertà, è incerto: è finita infatti in un limbo giuridico, dovuto a una situazione estremamente complessa.
Nel 2000 il Comune di Roma rilascia una concessione di 10 anni, estendibile ogni 5 anni. Nel 2015, non solo l’amministrazione non pubblica il bando ma arriva anche la scure dell’inchiesta Mafia Capitale. Così si procede di anno in anno con una proroga, tra infinite polemiche. Arriva poi anche la Bolkestein e il dubbio se i chioschi rientrino o meno nella direttiva. «Quest’anno siamo riusciti ad aprire solo dopo un ricorso al Consiglio di Stato e una protesta sotto il Campidoglio» spiega Maria Vichi, propietaria di "Dar Zagaia". Il nome deriva dall’appellativo di suo padre Pasquale, che "zagaiava", cioè balbettava. Sergio Leone si innamorò della sua faccia e lo volle come comparsa nei suoi film. «I nostri chioschi nascono per preservare la riserva naturale ma anche come ambiente protetto per la comunità gay e transessuale. Nessuno qui deve sentirsi a disagio». Tra i frequentatori abituali ci sono vip, artisti, intellettuali wannabe, giornalisti. Tanti i registi che hanno scelto Capocotta come set dei loro film, tra cui Carlo Verdone e Dario Argento. Nel’78 Nanni Moretti girò qui alcune scene del film Ecce Bombo. Dal Comune di Roma fanno sapere che il bando dovrebbe essere pronto a settembre e che si terrà conto della storia del luogo e della salvaguardia dei diritti di inclusione. «Ma a noi non è arrivata nessuna rassicurazione formale. Al bando possono partecipare tutti e la storia di questo posto può facilmente scomparire – spiega Claudio Presutti, presidente del Consorzio che racchiude i cinque chioschi di Capocotta –. Oggi la nostra è una scommessa vinta su ambiente e diritti. Non possiamo far finire una storia così».