il Giornale, 29 agosto 2023
La meravigliosa vita a pois di Yayoi Kusama
C’è da chiedersi perché un museo come il Guggenheim Bilbao abbia dedicato quattro anni di lavoro e ingenti risorse (va detto che Iberdrola è partner generoso) per una mostra dedicata a Yayoi Kusama, Nostra Signora dei Puntini dell’arte contemporanea, sdoganata al grande pubblico grazie all’art-washing di Louis Vuitton che di recente l’ha adottata persino come musa-manichino gonfiabile a Parigi (senza dimenticare le zucche a pois in piazza San Babila per l’apertura di una boutique del brand). Di lei, giapponese, classe 1929, dal ’77 auto-internatasi in un ospedale psichiatrico di Tokyo per tenere a freno le sue ossessioni, di lei con il caschetto rigido, lo sguardo ieratico e i colori fluo conosciamo anche perché iper-presenti sui social, così perfette per un selfie – le opere coi puntini e le stanze con gli specchi infiniti: non è forse sufficiente? Nel decennio della Kusama-mania (sono già quasi esauriti i biglietti per l’installazione di una delle sue Infinity Mirror Room che aprirà a novembre a Palazzo della Ragione di Bergamo), il Guggenheim Bilbao ha l’ambizione, si perdoni la metafora, di unire davvero i puntini. Attraverso Yayoi Kusama: dal 1945 a oggi, una retrospettiva che ha messo il pubblico internazionale in coda (resta aperta fino all’8 ottobre) entriamo nell’universo ossessivo e avanguardista di Yayoi Kusama, eliminandola dal feed di Instagram e posizionandola per bene lungo la linea della storia dell’arte del Novecento. Dai primi disegni di adolescente, figlia di buona famiglia proprietaria terriera, assecondata nel talento creativo dal padre (la madre l’avrebbe voluta donna di casa), alle opere immersive recenti, scopriamo una Kusama radicale e femminista, lucida e mai banale, più forte del suo disagio mentale. Soprattutto, generativa di uno stile unico. Osservando le duecento opere esposte tra dipinti, sculture video, installazioni, disegni (con una sola insta-concessione al primo piano, ben staccata dal resto del percorso espositivo: la Infinity Mirror Room, un delirio di specchi, riflessi e puntini colorati dove farsi foto e/o video è cosa buona e giusta) si resta stupefatti dalla sua ostinazione creativa, spesso autoreferenziale (e infatti la mostra si apre con una serie di autoritratti, dal 1950 a oggi, che da sola vale il biglietto d’ingresso). Nella grande esposizione curata da Doryun Chong e Mika Yoshitake in collaborazione con Lucía Agirre comprendiamo come l’ossessione per i puntini nasca durate il primo volo di Kusama dal Giappone agli Stati Uniti, nel ’57: affamata di vivere d’arte come mai avrebbe potuto fare nel conservatore Paese in cui era nata, resta ipnotizzata davanti al finestrino dell’aereo. Il mare, titolo di un lavoro del ’59, è un’immagine dall’alto, la prima maniacalmente costruita da reticoli e puntini. I puntini sono il negativo della rete, la rete è il positivo dei puntini, e viceversa: insieme, rete e puntini regolano l’universo. A questa legge universale della rappresentazione Yayoi Kusama si atterrà sempre, tanto da rivestire a pois gli oggetti del quotidiano (mobili, vestiti). La Kusama di oggi era già compiuta negli anni Sessanta, di cui vediamo in mostra video di veraci performance con corpi nudi ricoperti da puntini per protestare ora contro la guerra del Vietnam ora a favore dei diritti delle minoranze: per l’artista vale il ferreo principio dell’auto-obliterazione (cancello il mio corpo per liberarlo dai lacci sociali) e il suo rigore fa impallidire i tanti scimmiottamenti della pratica che vediamo oggi in altro genere di proteste. Tuttavia, in quegli anni, sia in America che in Europa, Yayoi Kusama piace solo alla gente che piace; non vende un gran che (Lucio Fontana, che la conobbe in Biennale a Venezia, si offrì di finanziarne delle performance). Solo alla fine degli anni Ottanta, quando è ormai protetta nel suo auto-esilio ospedaliero di Tokyo che le conferisce sicurezza mentale, la sua arte decolla sul mercato. Yayoi Kusama diventa allora debordante, incontenibile: «Creo arte per la guarigione di tutta l’umanità», dirà quasi messianica alla soglia del nuovo millennio. A ottant’anni inizia la serie My Eternal Soul, in parte presentata a Bilbao, con centinaia di dipinti allegri e colorati, realizzati uno per giorno. Durante la pandemia inventa Everyday I pray for love, un progetto con lavori di piccole dimensioni in cui lei, da sempre divorata da pensieri suicidi, celebra la vita. Da questa ultima sala, sovraccarica delle ultimissime opere, si esce con la convinzione che oltre ogni ingannevole apparenza la vera arte è sempre questione di sopravvivenza.