Robinson, 28 agosto 2023
Parla Alberto Casiraghy, editore di PulcinoElefante
A Osnago, più o meno a un’ora da Milano, vive un essere un po’ speciale. Si chiama Alberto Casiraghy (per distinguersi ha messo la y al posto dell’ultima i).Alberto è semplice, diretto nelle domande come nelle risposte. Di mestiere fa l’editore. Ma anche come editore è speciale. Nella vita ha pubblicato circa 11 mila titoli.Direte, sono tanti. Un momento. I suoi più che libri, come siamo abituati a riconoscerli, sono come piccoli sogni democratici: chiunque abbia qualcosa da dire, può aspirare a realizzarli. Non importa chi sei e quanto importante ti ritieni o cosa hai fatto per meritarti un librino del Casiraghy. Ma se vai da lui, a Osnago, ne uscirai migliore. Dice: «L’importante è che chi viene da me oltre a credere in quello che ha realizzato – sia un verso o un’immagine – mostri davvero un pezzetto della sua anima». Ama scrivere aforismi. Anche qui la forma è breve e il pensiero a volte vasto. La casa, dove vive e lavora, è la dimostrazione che il caos possa avere un senso.Ci si muove a stento, in una giornata, oltretutto, soffocante. Pile di libri accatastati, foto e disegni alle pareti, mangiare per i gatti, bottiglie, piatti e zanzare. Un incubo. Forse. Ma il sogno ce lo dobbiamo meritare anche noi. In una stanza sul retro troneggia un’Audax Nebiolo, una vecchia macchina tipografica con cui Casiraghy realizza in tempo reale i suoi libricini di poche pagine.È un nome bizzarro quello che hai scelto per la tua casa editrice: PulcinoElefante.«L’idea era far convivere il grande e il piccolo, in una forma minuta. E poi mi piacciono gli animali.Un amore sbocciato da piccolo per un rinoceronte.Nei pressi della Stazione Centrale di Milano vidi in un circo un rinoceronte legato alla catena. Mi avvicinai allo steccato e gli dissi: “Scappa, scappa.Rino, scappa!”. Lo so, era tutto molto infantile. Ma vedere quell’animale imponente sotto lo sguardo dei curiosi mi provocava una sensazione di disagio e di pena. E quando ho cercato il nome per la casa editrice, mi è venuto in mente la trasposizione di me piccolo e del rinoceronte grande. Ed è saltato fuori PulcinoElefante».Come sei finito editore?«Da ragazzo, per un certo periodo, ho fatto il tipografo. Avevo 13 anni e la tipografia stampava anche cose di qualità. Mi piacevano i libri, così come mi piaceva la musica e chiesi a mio padre di poter studiare violino. Dirai perché il violino?».Perché?«Mi affascinava la forma, il materiale con cui è composto. Imparare a suonarlo mi spingeva a capire che il suono non è solo il frutto di un virtuosismo ma anche della “cassa armonica”. È il motivo per cui a un certo punto sono diventato liutaio. Credo di avere una buona manualità. Ho imparato il mestiere da un maestro liutaio e poi ho trasmesso la passione a mio fratello che è più bravo di me e continua a farlo. Invece io sono tornato ai libri».È diverso intagliare un legno o stampare un libro?«Devi seguire la forma, assecondarla. E qui la diversità è fondamentale. Ma dopotutto la carta deriva dal legno, no? E poi entrambi i mestieri hanno il fine di esaltare un “gesto”. Che sia il suono o la parola scritta non importa se il risultato è arrivare al cuore di chi legge o ascolta».Che gente viene da te e cosa ti dice?«Le persone più diverse. Spesso vengono presentati».Come in un club.«A me fa pensare alla comunità più che al club.Arrivano portando con sé la frase di un racconto, un aforisma, un ricordo, un verso di una poesia. Ne discutiamo, perché è importante parlare e per me capire da dove nasca quella roba».Se hai dei dubbi?«In quel caso gli direi pensaci ancora un po’, prova a riscrivere. Non sono un critico, non mi devo ergere a censore. Mi accontento di sapere che quello che stampo provochi qualche emozione. Il mio intento è sempre stato di realizzare un’editoria senza schemi. Nella libertà assoluta».Anarchica?«Non c’è niente di sovversivo in ciò che faccio. Dire “senza schemi” – anche se in tipografia ci sono regole da seguire – equivale a riconoscere senza pregiudizi l’identità di un artista o di un poeta. La gente di solito non fa caso al fascino che possono provocare i caratteri tipografici».Come fossero cose che si animano?«E che contagiano le persone, per la loro eleganza o incisività. Io amo molto il Bodoni, altri preferiscono il Garamond o il Time. Sono “filosofie” di una scrittura visiva. Un grande stampatore, Giorgio Lucini, mi regalò casse di caratteri a piombo. Lo ringraziai. E lui mi disse: come ultimo dei sognatori sei il solo cui potevo darle. È un mestiere che si può fare solo sognando. L’avvento del computer ha reso inutile il mondo dei caratteri tipografici».Chi erano i tuoi amici?«Bruno Munari è stato un grande amico, mi ha trasmesso il gusto per il sorprendente. Poi Vanni Scheiwiller, mi venne a trovare qui a casa perché incuriosito da quello che si diceva su di me. Arrivò con Roberto Cerati che era l’anima commerciale e, aggiungo, culturale, della Einaudi. Furono gentili, meravigliati che potesse esistere un esserino votato interamente a un lavoro editoriale strano, inconsueto e privo di finalità mercantili».Che cosa pensasti?«Pensai che se due personaggi con una storia rilevante alle spalle si erano scomodati, voleva dire che c’era qualcosa di magico in quello che facevo.Da allora le visite e gli scambi di idee si sono moltiplicati. Oltretutto devo a Vanni la conoscenza di Alda Merini».Qui, nel tuo luogo di lavoro, Merini è presente con molte fotografie.«Ce ne è una che ho ritagliato da una rivista, dove Alda è molto giovane, bella, ma di una bellezza zingaresca. Credo fosse il periodo quando ebbe la relazione con Giorgio Manganelli».Di quel rapporto lei ne ha parlato spesso, con voluttà e rimpianto.«Sarebbe stata una meravigliosa coppia sul palcoscenico per una serata letteraria stravagante e indimenticabile. Fu una storia tormentata e mal digerita dalle famiglie. Lei aveva 16 anni, lui sposato. Furono costretti a separarsi. Si rividero dopo il periodo che Alda passò in manicomio. Gli dedicò la prima raccolta di poesie. Non c’era occasione in cui non rievocasse quella storia d’amore, mentre lui ha sempre cercato di nasconderla o limitarla a un episodio di gioventù».Che impressione ti fece la prima volta che la vedesti?«Aveva il dono di farti entrare nella sua vita con naturalezza. La prima volta che la vidi fu nella suacasa ai Navigli. Viveva in un luogo disordinato, povero ma non squallido. Fu Vanni a portarmi. Le disse cosa facevo: “Alberto è il panettiere degli editori, l’unico in grado di stampare in giornata”. Mi regalò una statuetta di Biancaneve: “Se fai lo stampatore ne avrai bisogno”, disse».Cosa intendeva?«Non lo so, era la Biancaneve come Walt Disney l’aveva immaginata. Ma sul significato di quel dono non saprei. Ma alla fine penso che Alda si sentisse un po’ come lei: una regina che attendeva il suo principe azzurro. Noi che la frequentavamo eravamo i suoi nani».La vedevi spesso?«Quasi tutti i sabati prendevo il treno da Osnago per Milano. Le portavo le uova fresche delle mie galline. Si stava in casa se era brutto tempo. Altrimenti si passeggiava sul Naviglio e poi sosta al bar Charlie.Sedevamo a un tavolino, lei ordinava un the caldo o una Coca Cola ghiacciata e parlavamo. Di tutto.Spesso mi dettava dei versi o degli aforismi. Diceva che era Dio a ispirarli. In realtà erano il frutto del suo lavoro costante».Tu commentavi?«Cosa potevo aggiungere? A volte mi chiamava al telefono alle sei del mattino: Alberto hai carta epenna? E giù con qualche nuovo verso. Non amava le correzioni. La sola persona da cui accettava critiche era Maria Corti. Come PulcinoElefante ho realizzato un migliaio e passa di suoi piccoli libri.All’inizio li vendeva sotto casa o li dava al farmacista in cambio delle medicine. Poi, quando è morta, ho raccolto le sue poesie inedite per l’editore Manni».Oltre a gente comune da te sono passati anche personaggi importanti.«Ricordo Allen Ginsberg. Lo condusse qui Fernanda Pivano di cui ero amico. Mi dettò il suo aforisma: “Mi metto la cravatta in taxi, senza fiato, correndo a meditare”. Di qui passò Maria Corti insieme a Cesare Segre. Era incantata da quello che vide. Scheiwiller un pomeriggio accompagnò la figlia di Ezra Pound, Mary de Rachewiltz. Qui Ceronetti mi dettò alcuni biglietti. Veniva spesso Sebastiano Vassalli. Era un uomo tormentato, non facile. Ma diventammo amici. Pietro Ingrao, con mio stupore, mi inviò alcune sue poesie. Si scusò per l’invadenza. Non l’ho mai conosciuto ma era un politico che sapeva far sognare la sinistra».Cosa pensi oggi della sinistra?«Non capisco molto di politica, ma quel suo sogno di riscatto si è molto affievolito. È diventata pocoaltruista. Il mio papà è stato partigiano. Scappò sulle montagne intorno a Lecco inseguito dai fascisti e per tutta la vita ha saputo riconoscere qual era la parte migliore del paese. Ancora nel dopoguerra qui le famiglie lasciavano aperto l’uscio di casa. Oggi è tutto molto confuso e arrabbiato».Tuo padre cosa faceva?«Era idraulico e la mamma sarta. Sono stato felice con loro».Com’è una tua giornata?«Suono, disegno, ascolto musica. Mi piace molto Gustav Mahler. È la felicità del fare e dell’ascoltare.Mi sembra di aver sempre vissuto una vita felice.Non ho mai considerato l’arte il frutto di un tormento o di una provocazione. Ce ne è già troppa nel mondo».Il tuo mondo come lo definiresti?«Alda parlava del piccolo manicomio privato del Casiraghy. Diceva che solo nel disordine si può trovare Dio».Chi è il tuo Dio?«Creare e credere sono due forme diverse di accostarsi a Dio. Non ho mai frequentato il mondo della religione, ma quello della letteratura, della musica, della liuteria sì. Sono queste per me leforme di libertà. Ma non bisogna enfatizzare la libertà».Qual è il rischio?«Jean Cocteau si sentiva talmente libero da non essere più padrone di se stesso. La libertà può scappare di mano. E Dio non essere più una risorsa. Buñuel scrisse: “Grazie a dio non sono credente”.Ciò in cui credo sono i mestieri che ho fatto con gioia».Il regista Silvio Soldini ha realizzato un piccolo film su di te. Quanto reciti e quanto c’è di vero in quello che dici?«Mi è capitato di dover dire tante bugie nella vita per trovare qualche forma di onesta verità. Il film di Soldini mise a confronto me e Joseph Weiss, uno stampatore svizzero altrettanto matto da immaginare un mestiere senza effettivi scopi di lucro. A un certo punto portai Silvio sul mio fiume, l’Adda, e pronunciai la frase “il fiume ha sempre ragione”, che poi divenne il titolo del film».Che cosa rappresenta?«Quella frase è la vita stessa nel suo fluire ordinato e impetuoso. Anche il mare, anche il vento hanno sempre ragione. Io vado spesso a trovare il mio fiume e penso che tutto abbia origine da lì».