Robinson, 28 agosto 2023
Su Tolkien
Nel 1760, quando apparvero i Canti di Ossian, tutta Europa li salutò come la scoperta di una nuova epica, antica ma non tanto da essere “barbara” come l’omerica, sentimentale quanto bastava al gusto dei moderni e anzi portatrice di un valore, il “sublime”, che avrebbe ispirato la poesia sepolcrale, la narrativa gotica, la pittura di autori come Friedrich e Füssli e tutto il primo romanticismo; senza Ossian, in Italia, Alfieri, Foscolo e Leopardi non sarebbero stati i poeti che furono. Al coro di entusiasmo non si associò Voltaire, che cogliendo in quell’epica miracolosamente vergine la contaminazione di elementi omerici e di elementi cortesi, in particolare arturiani, la denunciò come uno spudorato falso. Oggi sappiamo tutti che di questo si trattava, e che i testi gaelici che James Macpherson pretendeva di aver tradotto in inglese anticheggiante non erano mai esistiti: ma forse per questo l’Ossian perde di interesse e di importanza? Lo stesso Cesarotti, che lo tradusse in endecasillabi sciolti, aveva più di un sospetto, ma stette al gioco. Dietro ( o dentro, o sopra) questi episodi e queste dinamiche c’è infatti lo spirito stesso della letteratura, quello spirito, ha insegnato Borges, che stabilisce una feconda sincronia fra testi distanti migliaia di anni, che inverte il rapporto fra predecessori ed epigoni, che di ogni monade letteraria fa l’epitome di tutta la tradizione.Tolkien viveva precisamente in questa dimensione, inventando mondi non dal nulla, secondo un’ingenua visione demiurgica, ma dai testi, dalle lingue e dai miti. Il suo paradosso è che in una delle più originali e geniali opere letterarie del Ventesimo secolo non c’è un solo elemento che possa dirsi assolutamente originale: questo vale per i temi, itòpoi, i simboli, i paesaggi, le etnie, i personaggi, gli oggetti, perfino per le lingue che fin da ragazzo si divertì ad inventare su basi etimologiche, fonomorfologiche, grafiche e musicali. Non fosse così, la scrittura di Tolkien non ci trasmetterebbe quel senso di primordialità che è uno dei suoi tratti distintivi. Né si capirebbe perché, più dello Hobbit o de Il Signoredegli anelli, il libro cui egli fu più legato, al punto da non riuscire mai a prenderne congedo, è ilSilmarillion, sorta di preparazione narrativa del Signore degli anelli( che ne è in qualche modo una superfetazione) e, soprattutto, cantiere sperimentale in cui l’autore, rifiutandosi di “chiudere”, continua ad assecondare le spinte centrifughe e variantistiche. IlSilmarillion fu pubblicato postumo nel 1977 grazie alle cure del figlio: rientra però nella logica tolkieniana che, poco dopo, Christopher Tolkien abbia dovuto fare i conti con materiali narrativi riconducibili tanto al Silmarillion quanto alSignore degli anelli, materiali che fra gli anni ’ 80 e ’ 90 avrebbero trovato posto nei dodici volumi delle Storie della Terra di Mezzo.Prima ancora del 1977 però, e precisamente nel 1975, Christopher aveva dato alle stampe, intervenendo discretamente sul testo inedito, la traduzione paterna del poemetto Sir Gawain e il Cavaliere Verde, cui Tolkien aveva rivolto interessi filologici mezzo secolo prima, curandone l’edizione. E poiché Tolkien rendeva tolkieniano tutto quello che toccava, questa traduzione entrò immediatamente nel corpus della sua opera, richiedendo così, man mano che si susseguivano le scoperte d’archivio e le edizioni, nuove cure e integrazioni. Morto Christopher, la nuova edizione è uscita solo nel 2020, e su di essa è ora condotta la traduzione italiana di Luca Manini, che subentra alla precedente di Sebastiano Fusco ( 2009).È verosimile che il primo interesse di Tolkien per questo poemetto sia stato di natura linguistica: si tratta infatti di un testo tardotrecentesco, fortemente connotato in senso dialettale (Galles-Midlands), che per la sua materia cortese e cavalleresca costituiva per il traduttore una bella sfida, ovvero trovare il giusto compromesso fra aulicità e popolarità; a questo si aggiungeva l’onere di rendere la metrica originale, fondata non sul numero delle sillabe (e solo parzialmente sulla rima) ma sull’allitterazione interna a ogni verso, cosa che per un architetto della lingua come Tolkien rappresentava un invito a nozze. A lettura ultimata capiamo però quanto il testo fosse in potenza già tolkieniano, per il tema dell’inchiesta e della sfida (Galvano, sfidato dal misterioso Cavaliere Verde, dovrà trovarlo, un anno e un giorno dopo averlo decapitato, per ricevere lo stesso trattamento), il riferimento al folklore celtico, nel quale “l’uomo verde” è emblema della natura e dei suoi cicli, la compresenza di registri tragici e comici (tutto alla fine potrebbe ridursi ad una burla orchestrata dalla fata Morgana), la pregnanza magica degli oggetti (a partire dalla spada), dei materiali e dei colori, il conflitto prettamente arturiano fra lealtà cavalleresca e tentazione erotica, il misticismo cristologico, la fantasmatica transitività fra Galvano, Lancillotto, Percival, Ulisse, Enea... A questi nomi si potrebbe aggiungere quello di Cuchulainn, eroe di origine divina protagonista delle più antiche saghe irlandesi ( secoli VII-XII) nonché personaggio dei canti di Ossian (Cucullino nella versione cesarottiana), dove vive un’avventura – appunto il «gioco della decapitazione» – molto simile a quella di Galvano: ancora una volta vediamo come Tolkien entri a far parte di una costellazione mitografica e letteraria più ampia di lui, una costellazione satura che lo prepara, lo affianca, lo giustifica e ne è giustificata. Anche questo, credo, fa di lui un autore universale, con buona pace di chi, contagiato dal suo esoterismo, vorrebbe farne il sacerdote di un culto per iniziati. Vale la pena sottolineare che ogni forma di iniziazione è di per sé esclusiva e settaria, laddove l’opera di Tolkien è, come poche altre, inclusiva e contaminante: in quale altro autore si trovano echi della Bibbia, dei poemi omerici, del folklore celtico, del ciclo arturiano e di quello carolingio, della mitologia norrena (Edda) e di quella finnica (Kalevala), del Beowulf, dell’Ossian? Nella sua opera questi mondi fantastici, con i relativi substrati antropologici, si fondono con la stessa apparente naturalezza con cui interagiscono i mostri, i demoni, i draghi, gli uomini, gli hobbitt, gli elfi, i nani, gli orchi, i troll, i maghi, i non-morti, i nazgul, gli esserini viscidi e tremanti, tanto che per trovare una metanarrazione altrettanto potente dobbiamo aprire le pagine di un’opera non narrativa ma saggistica come Il ramo d’oro di James G. Frazer.Del resto, pur inserendosi nel ciclo della Tavola Rotonda, lo stesso Sir Gawain si apre con la caduta di Troia e le conseguenti imprese di Enea e di Romolo, cosa che non ci deve stupire se solo consideriamo che il più celebre romanzo coevo, ilTroilo e Criseide di Chaucer (fonte delTroilo e Cressida di Shakespeare), derivava dal Filostrato di Boccaccio, che a sua volta nasceva dal Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure, dove viene fatto rivivere chi, come Troilo, era stato ucciso da Achille nell’Iliade. Perché ridando vita ai morti la letteratura, come Tolkien ben sapeva, è anche questo: una forma ciclica di necromanzia.© RIPRODUZIONERISERVATALo anima quello spirito, come ha insegnato Borges, che stabilisce una feconda sincronia fra testi distanti migliaia di anni e che di ogni monade letteraria fa l’epitome di tutta la tradizioneA cinquant’anni dalla morte, il 2 settembre, una riflessione sul creatore del “Signore degli anelli” che va al di là di pretese appropriazioni politiche. E lo restituisce alla letteratura È l’occasione per rileggere la sua versione del mito arturiano di Sir Gawain che esce ora in nuova traduzione E vedere fin dove affondano le radici della sua operaLe miniature arturianeNell’illustrazione Sir Gawain, in armatura, si inginocchia davanti a re Artù e alla regina Ginevra dopo il suo ritorno a corte L’immagine si riferisce aSir Gawain e il Cavaliere Verde, storia cavalleresca risalente al tardo XIV secolo che narra l’avventura di un cavaliere appartenente alla Tavola Rotondaakg- images / British Library / Mondadori PortfolioMaestroJ.R.R Tolkien nasce nel 1892 a Bloemfontein (Sudafrica) e muore a a Bournemouth (Inghilterra) il 2 settembre 1973 Fin dagli studi a Oxford si interessa di filologia e leggende nordiche Il suo successo planetario è legato aLo Hobbit (1936) e alla trilogia de Il signore degli anelli (1954-55) Nel 1977 esce postumo Silmarillion,a cui aveva lavorato nel corso degli anni Le sue opere in Italia sono pubblicate da Bompiani