La Stampa, 28 agosto 2023
Intervista ad Alan Sorrenti
Alan Sorrenti sta scrivendo la sua autobiografia ed è difficile pensare che avrà problemi a riempire le pagine. Succede quando la tua vita somiglia a un film: «Ogni tanto ho bisogno di aiuto – racconta il cantautore, in una pausa del tour –. Quest’inverno ero in Costa Rica, stavo scrivendo della festa del proletariato giovanile Re Nudo al Parco Lambro quando mi ha chiamato Luca Pollini, uno degli organizzatori. Che coincidenza. Così gli ho chiesto in che anno ci suonai. Era il 1974. Mi ha mandato la locandina, in cartellone c’era anche Franco Battiato».
Vi incontraste?
«Non quella volta, è successo solo in un’occasione, per caso, in un negozio a Roma. Volevamo lo stesso sintetizzatore, il VCS3, quello dei Pink Floyd».
Lo compraste?
«Sì, entrambi».
Sono arcinoti i versi che le dedicò Battiato, da fan deluso, «Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro». Lei rispose che se avesse fatto il suo stesso viaggio a Los Angeles, avrebbe capito. Non le dispiace non averlo più incontrato per parlare con lui?
«Sì, ma non perché ci fosse bisogno di una riappacificazione. Tant’è che fece anche la cover del mio brano Le tue radici. Peccato per la versione dance, ma ciascuno è libero di fare la musica che vuole. Ho invece potuto abbracciare pochi mesi prima della sua morte Pino Daniele. Facemmo Figli delle stelle a un suo concerto. Nel camerino mi confessò che avrebbe voluto ridare vita al Neapolitan Power. Sarebbe stato un bel rilancio anche per lui».
Il suo nuovo disco, Oltre la zona sicura, è stato prodotto da Ceri. Nella musica l’età conta?
«No, conta la visione che si ha. Magari io ho più esperienza di Ceri, ma lui conosce meglio i suoni nuovi. Mi ha aiutato a veicolare i contenuti di un album che avevo quasi già scritto per intero».
Poco più di un anno fa c’è stato l’abbraccio del Mi Ami, il festival dell’indie per eccellenza: quanta gioia ha provato?
«Mi è sembrato di tornare ai miei esordi: ero a un festival indie di giovani che ascoltano l’altra musica. Sto facendo molti festival, sono lo spazio che mi si addice di più. Che bello essere di nuovo sul palco, in carriera credo di non avere mai fatto tanti live come quest’estate».
Torniamo al 1972, lei ha poco più di vent’anni e diventa un nome importante del progressive: qual è il ricordo più nitido di quel periodo?
«Il lavoro in studio. Per il secondo album, Come un incensiere all’alba di un villaggio deserto, io, Toni Esposito e gli altri italiani affittammo un appartamento a Londra, ma stavamo sempre in studio, giorno e notte».
Qualche anno dopo arrivarono Los Angeles, la svolta pop e il grande successo di pubblico: Figli delle stelle, L’unica donna per me, Non so che darei sono tre hit che hanno superato il tempo e le mode. Qual è la loro magia?
«Suonano bene. Figli delle stelle ha anche un testo speciale che parla dell’appartenenza all’universo dell’essere umano. I giovani oggi ci si ritrovano anche più che in passato. Nelle altre due l’adolescente si identificava, allora come oggi. Ceri ha centrato il punto: “Tu scrivi delle cose chiare e semplici"».
Successo fa rima con eccesso, si ritiene un sopravvissuto? Vasco direbbe “supervissuto”.
«Sì. Dopo quel successo pop tornai al rock con La strada brucia e Angeli di strada con i Toto. Senza il cantante, naturalmente. Era il mio rifiuto del mondo effimero delle star. Ero e sono un esploratore della musica. Quando nel ’79 vinsi il Festivalbar dissi: “Volete che mi atteggi da superstar? Ok”. Pretesi di entrare all’Arena con la Rolls-Royce cabrio di un amico. Mi divertii, ma era l’addio a quel mondo, non era roba mia. Credevo che il pubblico mi avrebbe seguito, invece è arrivato l’insuccesso».
Se ne rammarica?
«Forse avrei potuto fare un percorso più graduale».
Nel 1983 ci sono i 33 giorni di carcere con l’accusa, infondata, di spaccio di sostanze stupefacenti, dopo la denuncia della sua futura ex moglie. Chiuda gli occhi, qual è la prima immagine che compare?
«L’isolamento, durato una settimana, credo. Fu un colpo. Non avevo paura ma mi diede la possibilità di interrogarmi sul la vita che stavo conducendo. Poi mi ritrovai in cella con esponenti della Nuova Famiglia. Vissi tutto come un’esperienza nuova e scrivevo per i giornali raccontando come si viveva in carcere. Ricordo che venni invitato nella cella di un “capobanda”, gli cantai Dicitencello vuje, da quel momento ogni possibile problema in carcere era risolto».
Roberto Baggio ha raccontato che senza il buddismo non sarebbe riuscito più a giocare a calcio, tanto era il dolore alle ginocchia. A lei cosa l’ha aiutata a fare?
«A salvarmi totalmente. Per me non è stata una questione di ossa, ma di vita. Dopo tanta ricchezza creativa mi accorsi che stavo iniziando a inaridirmi. Avere incontrato il buddismo della Sokka Gakkai mi ha fatto capire che avevo vissuto solo per me e non per gli altri. Il valore si costruisce insieme. Mi ha aperto nuove porte, permesso di ritrovare la mia luce e vedere quella che c’è negli altri. Posso fare un appello?».
Prego.
«Vorrei incontrare Baggio. Nel buddismo segue una strada diversa ma parallela alla mia, credo che avremmo molto da dirci». —