Tuttolibri, 27 agosto 2023
Su Fratelli d’Italia di Arbasino
Al principio degli anni ’60 i giovani intellettuali-guastatori prima dei Novissimi e poi del Gruppo 63 scrivevano, si riunivano, si facevano spazio. Guglielmi, Pagliarani, Sanguineti e tanti altri stavano sulla riva sinistra, molto interessati alla ricerca formale e molto attenti all’impegno sociale. Parlando di romanzo, badavano a farne a pezzi forma e struttura, nel profondo disprezzo del romanzo borghese alla Giorgio Bassani e alla Carlo Cassola. Che i più corrosivi del Gruppo 63 chiamavano «Liale».Chissà che il nomignolo non fosse stata un’idea proprio di Arbasino, che in quel gruppo era ricompreso e quanto a forza corrosiva era campione. Non a caso in Fratelli d’Italia le pagine grondano sarcasmo, fastidio, sprezzatura, humour. Ma chiariamo ancora una cosa: nel passaggio dai 50 ai 60 del romanzo italiano non c’erano solo le «Liale» con i loro romanzi piccolo-borghesi, e dall’altra parte esperimenti formali-strutturali: c’erano anche romanzi di stile e impianto classici ma molto impegnati, molto dentro al loro tempo, romanzi che raccontavano l’alienazione della vita in fabbrica, della trasformazione dell’Italia da contadina a industriale, insomma romanzi sulla parte più povera e debole del famigerato boom economico: La vita agra di Bianciardi (’62), Il maestro di Vigevano di Mastronardi (’62), Donnarumma all’assalto di Ottieri (’59), per dirne solo alcuni. Fu in questo contesto che nel 1963 uscì Fratelli d’Italia per Feltrinelli. Un romanzo di un membro del Gruppo 63, certamente sperimentale nella struttura e nella forma (un sound fluido, tra il parlato e il cantato), ma che quanto a impegno se ne guardava bene dal scendere sull’inflazionato terreno della denuncia, o della solidarietà con il proletariato, sistemandosi piuttosto dove nessuno o quasi (erano già usciti gli oggi dimenticati romanzi di Uberto Paolo Quintavalle) era mai stato.Fratelli d’Italia è il ritratto dell’Italia ricca e gaudente di quegli anni, un ritratto solo in parte derisorio – la presa in giro è soprattutto per i nouveaux riches e certa decrepita nobiltà decaduta – ma per lo più orgogliosamente compiaciuto, scritto da una posizione elevatissima, da lì guardando giù. Chi dice io nel romanzo è l’Elefante (in virtù di un certo sovrappeso) che troviamo nella prima pagina con Antonio, a Fiumicino, ad aspettare due amici, Jean-Claude, francese, e Klaus, tedesco, che però arriva dall’America. Li accoglieranno ognuno sulla propria due posti sportiva per portarli verso sud: Gaeta, poi Napoli, poi Capri, e poi via ancora, in giro per l’Italia, nell’estate appena cominciata.L’Elefante è italo-svizzero, laureando in materie economiche, lo aspetta un praticantato in borsa a Ginevra. Antonio scrive recensioni e saggi, ma anche soggetti e sceneggiature per il cinema. Jean-Claude è uno scrittore in crisi. Klaus è un musicista, che compone opere. C’è l’incarico, molto lasso, di scrivere la sceneggiatura di un film, che avrà per titolo Italia si chiama amore, ma il punto è che questi quattro, e quelli che incontreranno nel loro girovagare in spider, hanno letto tutto, visto tutto, ascoltato tutto. Conoscono ogni risvolto della storia politica e sociale del mondo. Hanno in odio il conformismo, le cadute di stile, i comportamenti convenzionali, le «baracconate», le cose scadenti piccolo-borghesi. E allo stesso tempo sono tutt’altro che noiosi, tutt’altro che schizzinosi, anzi: l’Elefante e Antonio, omosessuali (però senza dir mai la parola, una specialità di Arbasino), sono sempre pronti a «fare delle sciocchezze» con camerieri, bersaglieri, marinai, marchette, e a vedere il mondo e la gente attraverso il filtro del sesso.La compagnia di giro si arricchisce, i personaggi entrano ed escono, si va a Spoleto per il festival e lì si incontrano registi, musicisti, attori. Arrivano le signore della nuova Milano bene, arriva il biasimevole poeta Bustini, c’è una grande festa organizzata dal gaudente ma forse malatissimo Raimondo, entra in scena principescamente Desideria, il sublimato della classe, dell’eleganza, della bellezza, dell’understatement.Ma la trama? Non c’è. Ci sono queste brevi ondate di gente che arriva, che va, che fa cose, che si sposta, che stigmatizza, dice perfidie, si annoia, scappa a fare «sciocchezze», va a cena. E tra queste ondate, prima del viaggio verso una nuova tappa, i personaggi si fermano e per decine di pagine discutono: sul teatro, sul romanzo, sulla musica, sulla politica, sul cinema, sulla poesia, con spreco di nomi e di titoli e di giudizi tranchant, in sofisticatissime litigate. Fratelli d’Italia è un immenso affresco che da una parte funge sì da spassoso e irriverente ritratto dell’high society degli anni del boom, ma dall’altra è un saggio in forma di conversazione sulla cultura occidentale. Un affresco di oltre 500 pagine nella prima redazione, quella Feltrinelli del ’63, diventate quasi 700 nell’edizione Einaudi del ’76, e cresciute fino a oltre 1300 nella mastodontica di Adelphi del ’93, in un processo di aggiunta, integrazione, catalogazione che lo rende un libro complesso, unico, meraviglioso.