La Lettura, 27 agosto 2023
Storia dell’amicizia tra Joyce e Svevo
Un insegnante di lingue alle prime armi e un facoltoso uomo d’affari nella Trieste austroungarica del primo Novecento. È una storia raccontata in molti libri, ma qui indagata forse per la prima volta nella microfisica dei dettagli privati e nelle circostanze più intime, mettendo in risalto la complessità di un’amicizia radicata in un’affinità psicologica forse più ancora che letteraria. Leggendo la ricostruzione appassionata di Enrico Terrinoni, da sempre alle prese con gli scavi nell’infinito giacimento joyciano, risulta chiaro che Italo Svevo e il suo collega irlandese si piacciono prima di tutto umanamente, ed è a partire da questa immediata simpatia che fiorirà tra i due un profondo sodalizio artistico.
Il primo incontro nasce per ragioni professionali: Italo Svevo deve imparare l’inglese perché il colorificio Veneziani – di cui, grazie a un fortunato matrimonio, è diventato direttore – sta aprendo una succursale nei pressi di Londra, dove produrrà apposite vernici sottomarine per la marina britannica. Lui e la moglie, la signora Veneziani appunto, si rivolgono alla Berlitz School dove vengono affidati a un tal professorucolo irlandese di venticinque anni, amato da pochissimi (pochissime...) per la sua stravaganza, James Joyce, arrivato a Trieste per sbaglio (insieme a Nora), costretto a sbarcare il lunario dando lezioni, private o per conto della scuola, un lavoro che detesterà dal primo minuto e di cui si libererà appena possibile (a Parigi, grazie a un piccolo vitalizio della sua mecenate Harriet Shaw Weaver).
Terrinoni segue da vicino i due giganti, si addentra nelle vicende delle rispettive famiglie, ficca il naso nel carteggio privato con la devozione rockettara di un fan sfegatato e l’acribia del filologo. È così bello avere a che fare con una ricostruzione meticolosa che, là dove mancano i dati oggettivi, non inventa storielle per colmare le lacune, ma introduce magnifiche avvertenze come: «Qui possiamo solo immaginare un Joyce intento a...», oppure «inutile speculare oltre in mancanza di prove». Sono esempi di trasparenza e onestà intellettuale che nulla tolgono al piacere della lettura, pur senza cedere alla scorciatoia di romanzare le vite celebri in vaghe biografie di pura suggestione.
Il libro è a tutti gli effetti una doppia biografia, una forma rinnovata delle Vite parallele di Plutarco, salvo il fatto che qui i due modelli accostati non vengono da due epoche lontane, al contrario si inseguono in un intreccio di episodi e circostanze che finisce per saldarli in un unico destino.
Iniziata nel 1907, l’amicizia durerà tutta la vita, supererà il divario sociale e il perbenismo (Joyce era un habitué di bordelli e osterie), sarà particolarmente fervida negli anni della frequentazione triestina, ma tutt’altro che indebolita nella distanza, come attestano le lettere dei due e l’impegno concreto che Joyce metterà nella promozione della Coscienza di Zeno a Parigi. La generosità è il primo tratto distintivo del loro incontro. Svevo in molte occasioni concederà prestiti consistenti al giovane amico, sempre inseguito dai creditori. Più tardi Joyce, raggiunta finalmente una posizione di rilievo nell’ambiente letterario parigino, si adopererà presso conoscenze influenti per far tradurre i romanzi del suo vecchio sodale e, per vari aspetti, mentore.
Sono molte le tracce di questa influenza messe in luce da Terrinoni, alcune appena visibili in filigrana, altre più evidenti, come l’Angiolina di Senilità presa a modello per tratteggiare Molly Bloom, per non parlare dello stesso Leopold Bloom ricalcato sul portamento e il carattere dello scrittore triestino, anche lui bonario, anche lui moderatamente ebreo e soprattutto anche lui ricco di humor e di ironia. L’ironia è il vero punto di contatto tra La coscienza di Zeno e l’Ulisse, la cui comicità, guarda caso, è tutta nello stream of consciousness di Leopold Bloom, non certo nei pensieri cupi di Stephen Dedalus.
Non credo invece, come sostiene Terrinoni, che Svevo avesse una buona padronanza dell’inglese, almeno a giudicare da alcune confidenze scritte alla moglie dalla fabbrica londinese, nonché dal modo in cui il nostro affronta l’Ulisse in quella famosa conferenza a Milano del 1927. In ogni caso, del capolavoro joyciano Svevo coglierà un tratto di grande importanza che riassumerà così: «È tanto irlandese che gli inglesi non sanno amarlo».
Ecco, forse Terrinoni non si sofferma abbastanza sulla questione del linguaggio, che, a mio parere, è il vero collante sia della vicenda umana che dell’esperienza artistica dei due scrittori. Entrambi danno vita a opere memorabili scritte però in una lingua appresa. Svevo impara l’italiano sui libri e, come dichiara in molti luoghi, non ha modo di parlarlo quasi con nessuno (la lingua corrente a Trieste ancora oggi è il dialetto). Allo stesso modo, Joyce è un irlandese che rivendica un rapporto di estraneità con la lingua inglese (vedi Il ritratto dell’artista da giovane), anche lui l’ha imparata a scuola e finirà per insegnarla a stranieri, in terra straniera. Entrambi non omettono tutto ciò, ma anzi lo tematizzano nei loro libri: scrivere nella propria lingua come se fosse una lingua straniera. Entrambi esprimono la loro ineguagliabile unicità grazie a questo rapporto con la lingua di elezione: Svevo non gioca, bensì viene giocato dalle parole che usa (lo ammette più volte nella Coscienza), Joyce raggiunge gli anfratti più nascosti dell’inglese proprio perché è lontano da comunità anglofone, vivendo per dodici anni a Trieste, per altri sei a Zurigo e per gli ultimi venti a Parigi.
Se esiste la fossa oceanica di Finnegans Wake forse è proprio perché Joyce ha potuto sprofondare nell’inglese come se fosse una lingua morta. Insomma, sono due scrittori che pongono con assoluta consapevolezza la questione dell’alterità nel linguaggio. È questo, secondo me, che crea una continuità forse inespressa a parole, ma avvalorata dai fatti e di certo radicata negli strati più profondi della loro amicizia. Tenerne conto renderà ancora più appagante la preziosa investigazione compiuta da Terrinoni.