La Lettura, 27 agosto 2023
Coetzee contro la prevalenza dell’inglese
C’è un po’ di Spagna, un po’ di Italia, un po’ di Polonia, insomma molta Europa continentale nel nuovo, breve romanzo di J. M. Coetzee, Il Polacco. L’Europa della letteratura (Coetzee ha avuto modo più di una volta nei libri precedenti di rendere omaggio a un padre nobile come Cervantes), della musica, della poesia, della geografia per uno scrittore sudafricano, naturalizzato australiano, premio Nobel nel 2003, che da tempo conduce una battaglia contro l’egemonia linguistica – e quindi culturale – dell’inglese.
«Non mi piace il modo in cui sta conquistando il mondo» ha dichiarato nel 2018 all’ Hay Literary Festival di Cartagena, in Colombia. Coetzee lo ha imparato in famiglia, in Sudafrica, insieme all’afrikaans; lo usa per scrivere i suoi libri eppure dice di non sopportare il modo in cui questo idioma «schiaccia le lingue minori che trova sul suo cammino». Non gli piacciono le sue pretese universalistiche, la sua convinzione assoluta che il mondo sia come sembra essere nello specchio della lingua inglese: «Non mi piace l’arroganza che questa situazione genera nei suoi madrelingua. Pertanto, faccio quel poco che posso per resistere alla sua egemonia» è stata la sua condanna senza appello espressa in diverse occasioni. Tra le azioni intraprese per combattere questa battaglia c’è anche la scelta di pubblicare i suoi libri prima in traduzione: lo ha fatto con l’olandese, in virtù della sua relazione con la lingua afrikaans; e lo ha fatto con lo spagnolo. Il Polacco, che ora Einaudi manda in libreria nella bella versione di Maria Baiocchi, come già il romanzo precedente La morte di Gesù, è uscito prima in spagnolo dalla piccola casa editrice argentina El Hilo de Ariadna. La scelta soddisfa anche un altro simbolismo a cui Coetzee tiene molto: privilegiare l’editoria del Sud del mondo, rispetto a quella, anch’essa dominante, del Nord. «Ho pubblicato appositamente i tre romanzi più recenti nell’emisfero australe – ha spiegato in un’intervista al “País” —. Sono apparsi in Argentina e Australia prima di essere pubblicati in Gran Bretagna o negli Stati Uniti».
La questione della lingua, e della traduzione in senso lato, è uno dei temi che lo scrittore tocca in questo romanzo che ricrea, aggiornandolo al presente, l’amore stilnovistico di Dante per Beatrice, a cui rende omaggio fin dal nome della protagonista. Un romanzo che tiene anche in sottofondo la relazione tra il compositore polacco Fryderyk (Frédéric) Chopin e la scrittrice francese George Sand, cominciata, come molti grandi amori, con una feroce antipatia.Tra il 1838 e il 1839 la coppia passò diversi mesi a Palma di Maiorca insieme ai due figli di lei: lui era già malato di tubercolosi e il clima umido non gli giovò, eppure durante quel soggiorno comporrà i Preludi op. 28; lei invece scriverà Un inverno a Maiorca .
Mescolando la doppia suggestione Dante-Beatrice e Chopin-George Sand, superata la soglia degli ottant’anni (è nato nel 1940), Coetzee consegna al lettore un breve, crepuscolare apologo sull’ultimo amore, altrettanto intenso, ma meno ambizioso di quella allegorica rivisitazione evangelica rappresentata dal progetto precedente, la trilogia composta da L’infanzia di Gesù, I giorni di scuola di Gesù, La morte di Gesù.
Il Polacco è un romanzo tutto europeo nelle sue radici culturali (la poesia, la musica, i luoghi), strutturato in sei brevi capitoli: ogni capoverso, compreso il più breve, è numerato, in una sorta di schema aritmetico-musicale dove anche la pausa ha un preciso senso. Soprattutto nella prima parte sembra un susseguirsi di scene, quasi un soggetto, una sceneggiatura sfrondata di ogni elemento superfluo, in cui i due personaggi si presentano, pirandellianamente, all’autore per essere raccontati.
Coetzee rielabora le diverse ispirazioni letterarie e i grandi temi esistenziali che gli stanno da sempre a cuore – l’amore, la bellezza, la morte, l’arte – nella sbilanciata relazione tra Witold e Beatriz e costruisce una storia di desiderio e amore romantico in cui i dilemmi etici e le sfumature politiche di molte sue opere precedenti si attenuano. Lui è un pianista polacco settantenne, austero interprete di Chopin, dal cognome così pieno di w e z che nessuno si azzarda a pronunciarlo, Walczykiewicz; è un uomo grande e grosso, con un torace che sembra voler scoppiare dalla giacca, con la stessa faccia lunga e cupa, gli stessi occhi celesti slavati, la stessa postura eretta dell’attore svedese Max von Sydow («chino sulla tastiera, sembra un enorme ragno»). Lei è una quarantenne di Barcellona, «intelligente, colta, preparata, una brava moglie e madre», con un marito ricco e due figli ormai adulti. È Beatriz che lo ha invitato a tenere un concerto nel circolo musicale della sua città dove «i biglietti sono cari e i frequentatori tendono a essere ricchi, avanti negli anni e di gusti conservatori».
Dopo l’evento, per dovere di ospitalità e senza troppo entusiasmo, lo porta fuori a cena con una coppia di anziani amici, in un locale italiano «con un po’ troppo velluto verde scuro negli arredi ma con un bravo chef milanese». Lui non parla spagnolo, lei non parla polacco, comunicano in un inglese artificioso e privo di sfumature, insufficiente a instaurare qualunque tipo di intimità, il che enfatizza sopratutto il disagio di lui («è corretto, ma lento»). Le loro conversazioni si srotolano tra silenzi e imbarazzi, sono «monete scambiate nel buio, ignorandone il valore». Nemmeno la musica riesce a essere un terreno comune: lei non capisce che cosa lui voglia dire quando le spiega che Chopin continua a vivere perché «ci parla di noi. Dei nostri desideri. Che a volte non ci sono chiari. Che a volte sono desideri di quello che non possiamo avere. Di quello che per noi è irraggiungibile». Non lo capisce anche perché non le è piaciuta la sua interpretazione musicale che reputa fastidiosamente opaca rispetto al sentimento e alla passione: «Il Polacco si sarà pure fatto un nome come interprete di Chopin, ma lo Chopin che conosce lei è più intimo e più sottile di quello che presenta lui».
Per Beatriz, dunque, la relazione finisce lì, con i saluti del dopocena. Quasi subito dimentica il pianista e torna al suo buon matrimonio basato sul rispetto e sui segreti, sulla comoda scelta di dormire in camere separate. Per lui, invece, tutto inizia.
Coetzee gioca sulla triangolazione tra parola, musica e poesia ponendo al centro il tema della traduzione, non soltanto della lingua, ma anche dei pensieri, degli atteggiamenti, dei desideri. Come si parla al cuore di una donna? Come ci si fa capire? Se per il Polacco quello per Beatriz è un ultimo, un po’ folle amore senile, per lei è qualcosa di più ambivalente e meno facilmente definibile. La distanza tra loro è generazionale, oltre che linguistica, riguarda i gusti, i sentimenti, gli stili di vita. Eppure cercando di comprendere, con una meticolosa concretezza, la passione che suscita nell’uomo, quasi controvoglia Beatriz finisce con il soggiacere alla legge dantesca secondo cui l’amore «a nullo amato amar perdona» perché c’è qualcosa di innaturale nell’amare senza aspettarsi di essere riamati. Così l’atteggiamento di questa Beatrice riluttante cambia poco a poco: «Le piace la sua postura, sempre così eretta, che stia in piedi o seduto. Le piace la sua attenzione, la serietà con cui la ascolta quando parla», è persino divertita dal suo inglese, «grammatica corretta e idiomi erronei».
Per questo, pur non sapendo bene perché, quando lui la invita a raggiungerlo a Girona dove sta tenendo delle lezioni («Sono qui per te, non ti dimentico» le scrive) lei accetta l’invito, solo per mettere in chiaro che non prova niente per lui e non gli darà niente. «Cara Signora, ricordi Dante Alighieri, il poeta? La sua Beatrice non gli rivolse mai neppure una parola ma lui la amò per tutta la vita» è la risposta del Polacco. Lei gli porta la pace, le dice. E anche se non si riconosce per nulla in questa visione idealizzata che il pianista ha di lei («Pace invece di cosa? Di guerra? Che ne sa lui della guerra, tutto il giorno seduto davanti al piano, perso tra le nuvole?»), sarà lei stessa a invitarlo a raggiungerla nella casa di vacanza del marito a Maiorca, l’isola di Chopin e George Sand, dove trascorrono insieme alcuni giorni (e notti) che lo scrittore descrive in poche magistrali, crudeli pagine: il freddo distacco di lei, l’abbandono trasognato di lui.
Non c’è alcuna comunione d’anime tra i due, niente riesce ad abbattere il muro che ostacola l’intimità, neppure la musica, neppure la poesia. «Il fatto è che tu non sai né chi sono né cosa voglio» dice Beatriz. «Be-a-triz» le sussurra lui nell’orecchio in un rovesciamento del Lo-li-ta di Nabokov. «Morirò col tuo nome sulle labbra». Ma per lei è un relitto della storia, «dell’epoca in cui il desiderio doveva essere soffuso di un velo di inattingibile, prima di poter passare per la cosa vera». Benché la narrazione sia in terza persona, il punto di vista che l’autore sposa è quello di Beatriz, è il suo percorso che gli interessa. Se non ama il Polacco, allora qual è il nome di ciò che prova per lui, il sentimento che l’ha portata a questo discutibile passo? «Se lo dovesse etichettare, lo chiamerebbe compassione. Lui si è innamorato di lei e lei ne ha avuto compassione e per questo gli ha dato quel che voleva. Così è andata». Dopo l’incontro a Maiorca i due non hanno più alcun contatto, lui le scrive ma lei non apre mai le sue email e, guardando nel suo cuore non trova «residui oscuri»: nessun rammarico, né pena, né desiderio; niente che possa turbare il suo futuro».
Soltanto dopo la morte del pianista Beatriz viene in possesso delle 84 poesie che lui le ha dedicato, novello, insufficiente, povero Dante che aspira a parlarle dall’oltretomba «perché lei lo ami e lo mantenga vivo nel suo cuore». Scritte in polacco, anche queste parole d’amore sfuggono alla comprensione di Beatriz e neppure la traduzione che commissiona a una professionista riesce a dar loro un valore poetico. Ma in qualche modo riescono a creare la prima, autentica forma di intimità.
La scrittura disadorna e preziosa di Coetzee, fatta di frasi brevi e incisive, traccia un sentiero emotivamente coinvolgente lasciando emergere dai fatti l’inquietante verità che troppo spesso c’è uno spazio incolmabile tra chi siamo, chi crediamo di essere e come gli altri ci vedono. Commuove il dubbio crudele che la profondità dei sentimenti rischi di perdersi per sempre se non si hanno le parole per dirlo.