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 2023  agosto 27 Domenica calendario

Sul caso giudiziario noto come “7 aprile”


il blitz che fermò la lotta allo stato7 aprile 1979. Roberto Colozza ricostruisce il caso giudiziario che portò all’arresto, a Padova, dei principali esponenti di Autonomia operaia, volto legale di un più vasto partito armatoRaffaele LiucciAntagonisti.  Un volantino di propaganda politica di Potere Operaio, Pisa 1968 (Biblioteca Franco Serantini) Per spiegare a lettori profani un caso giudiziario complesso come quello passato alla storia sotto il nome di «7 aprile» (1979), può essere utile un raffronto con la Rivoluzione francese. Fatte le debite proporzioni, potremmo paragonare le varie sigle rivoluzionarie operanti in Italia negli anni Settanta (Lotta Continua, Potere Operaio, Brigate Rosse, Gap, Nap, Autonomia Operaia ecc.) ai circoli nati a Parigi dopo il 1789.
I foglianti erano i più fieri nemici dei girondini, i cordiglieri erano in lotta con i giacobini, ma storicamente appartenevano tutti, con sfumature diverse, allo stesso movimento generale che intendeva seppellire l’Antico Regime. Analogamente, Lc, Potop, Br ecc., pur essendo in competizione fra loro, avevano un obiettivo comune: abbattere lo Stato borghese attraverso una (vera o supposta) rivoluzione marxista.
Secondo il sostituto procuratore padovano Pietro Calogero, al di là delle discordie che in apparenza dividevano i vari gruppi, «un unico vertice» aveva presto assunto la guida della lotta. L’Autonomia Operaia (una costellazione di sigle sorta sulle ceneri di Potere Operaio, scioltosi nel 1973) non era altro che il volto legale di un più vasto partito armato che includeva anche le Br, temibile organizzazione clandestina. Fu questa illuminazione investigativa a condurre al blitz del 7 aprile 1979, quando finirono in manette i principali esponenti di Autonomia, il cui leader indiscusso era Toni Negri, ordinario di Dottrina dello Stato a Padova, uno dei feudi dell’Autonomia. L’offensiva del «7 aprile» non spaccò solo questa inquieta città di provincia, ma l’Italia intera. Sacrosanta risposta dello Stato al dilagare della violenza oppure criminalizzazione indiscriminata di quanti si opponevano al «compromesso storico» fra Dc e Pci?
Nato proprio in quell’anno cruciale, Roberto Colozza affronta con distacco vicende non ancora pacificate per chi le abbia vissute sulla propria pelle. È questo, del resto, l’algido compito della storiografia. Per certi versi, la stessa inchiesta di Calogero fu una sorta di esperimento storiografico: «indagare i teorici della sovversione attraverso i loro scritti». Quelle parole squillanti, snobbate dai più quali meri gargarismi verbali, disegnavano infatti la trama di un coerente progetto eversivo. Come aveva compreso anche Angelo Ventura nei suoi pionieristici studi storici sul terrorismo, chi teorizzava la lotta armata cercava pure di metterla in pratica. È questa una propensione che emerge sin dall’inizio. Per esempio, Lc preannunciò la condanna a morte del commissario Calabresi un anno e mezzo prima di eseguirla (maggio 1972). Dopodiché, la rivendicò «fra le righe» (Leo Strauss) in numerose occasioni (una volta persino sui «Quaderni piacentini»).
Anche l’altra intuizione di Calogero – il reciproco intreccio occulto fra i vari segmenti del partito armato, quelli legali e quelli illegali – è ormai accolta dagli storici. Pure questa è una peculiarità rintracciabile sin dagli albori degli anni Settanta, quando nel brodo primordiale della lotta armata Br, Gap, Lc e Potop si scambiavano non soltanto idee, ma anche uomini, armi, covi.
Come tutte le indagini storiografiche, anche quella di Calogero subì correzioni in corso d’opera. In particolare, le varie Corti d’Assise alla fine stabilirono che, pur cooperando fattivamente all’interno della comune prospettiva insurrezionalista, Autonomia Operaia e Br erano due organizzazioni distinte, con vertici diversi. Ma questo non basta per concludere, come ha fatto una certa vulgata innocentista, che il «teorema Calogero» sia stato smantellato. Semplicemente, poiché gli ultimi gradi di giudizio si sono celebrati in un’altra Italia rispetto agli anni di piombo, gli imputati hanno beneficiato di un clima più benevolo.
Da parte loro, i garantisti critici del «7 aprile» (oltre al giudice istruttore padovano Palombarini, Ferrajoli, Rodotà, Cacciari, Bocca, Rossanda, Sciascia) ritorneranno alla carica, questa volta con minore successo, dopo l’arresto di Sofri per l’omicidio Calabresi (1988). Spesso, dal terrorismo sino a Tangentopoli il garantismo nostrano è sembrato più interessato a tutelare i propri «amici» che non i principi di civiltà giuridica cui s’ispira. Di ben altro spessore il senso dello Stato dimostrato dal Pci, che in queste pagine riluce come il vero baluardo contro il terrorismo.
Il volume di Colozza ha il pregio di saper raccontare limpidamente una materia intricata senza semplificarla troppo.
Rigoroso lo spoglio capillare di decine di migliaia di carte giudiziarie. Condivisibile la contestualizzazione del «7 aprile» nella più ampia storia italiana. Affascinante l’alternarsi, lungo un ventennio, di storia locale (Padova), nazionale (l’Italia) e internazionale, allorché diversi latitanti ripareranno a Parigi e il loro destino diventerà oggetto di delicate trattative fra i governi francesi e italiani (come risulta anche dalle carte reperite negli archivi d’oltralpe).
Il libro dunque c’è, il solido lavoro di ricerca anche. Quel che desta qualche perplessità è il cambio di «mood» nel passaggio dalla prima alla seconda parte. Colozza comincia bene, ricostruendo in modo preciso ed equilibrato le fasi iniziali della titanica inchiesta di Calogero. Ma nella seconda parte, forse influenzato dalla sua formazione parigina, dedica sin troppe pagine, quasi ammiccanti, alle sofferenze dei carcerati e degli «esuli» in terra di Francia (Negri, Piperno, Scalzone ecc.), senza spendere parole altrettanto sentite per le vittime e le logiche “squadristiche” che avevano insanguinato per anni il Veneto e in particolare l’università di Padova (i cui docenti non ignavi venivano bastonati e gambizzati). Come se i diritti delle vittime e dei loro aggressori fossero davvero «due facce della stessa medaglia» (sic a pagina 284). Non è così: da un lato c’era uno Stato imperfetto, ma democratico, dall’altro minoranze quasi del tutto prive di radici sociali, sobillate da intellettuali anarcoidi piccolo-borghesi. In quest’emergenza, alcuni magistrati coraggiosi come Calogero agirono «con il fardello di dover capire ma anche di poter sbagliare» (Sergio Zavoli).