il Giornale, 27 agosto 2023
Biografia di Walt Disney
Le fortune di due fra i più importanti imprenditori-innovatori statunitensi contemporanei sono nate in un garage. Da lì sono partiti, con immensa fiducia, poche certezze e mezzi finanziari risibili, Steve Jobs (fondatore di Apple) e Bill Gates (fondatore di Microsoft). Storie incredibili. Ma non nuove. Spostando il calendario indietro di cento anni, uno squattrinato disegnatore fatica non poco per racimolare i soldi per pagarsi il biglietto del treno per Los Angeles. Si chiama Walter Elias Disney. Nato a Chicago nel 1901. La «città degli angeli» è nel vortice dell’espansione economica. I produttori cinematografici hanno abbandonato la fredda costa dell’Est per accasarsi nella calda costa dell’Ovest. Possono lavorare ininterrottamente tutto l’anno. Disney e il fratello partono da un garage. E da lì scalano a grandi passi il «tempio della celluloide». Walt ha una grande intuizione. Ai magnati di Hollywood non interessa il cartone animato. Il mercato di fatto è un oligopolio, dominato da otto compagnie: cinque grandi e tre piccole. Poi ci sono gli indipendenti, che tali debbono restare. Se hanno ambizioni di crescere e trovarsi un posto al sole accanto ai grandi, si sbagliano di grosso. Disney per il disegno animato ha un talento insuperabile. È un discendente di Leonardo da Vinci catapultato nel XX secolo. E il 16 ottobre 1923 Walt Disney e suo fratello Roy con il nome di Disney Brothers Studios.
Uno scrittore francese oggi quasi dimenticato, Joseph Kessel, nel 1937 così definisce Hollywood: «I cattolici hanno il Vaticano. I musulmani La Mecca. I comunisti, Mosca. Le donne, Parigi. Ma per gli uomini e le donne di tutte le nazioni, di tutte le credenze, di tutte le latitudini, una città è nata dopo un quarto di secolo, più affascinante e più universale che tutti i santuari. Si chiama Hollywood. Hollywood! Qui si fabbricano, destinati per la terra intera, sogni e sorrisi, passione, brivido e lacrime. Si costruiscono volti e sentimenti che servono da misura, ideale o droga per milioni di esseri umani. E nuovi eroi si formano ogni anno per l’illusione delle folle e dei popoli». Walt Disney doveva aver scolpite nella mente queste parole. E le traduce in cartoni animati per il grande schermo. Disegna senza sosta. Dal suo cappello magico saltano fuori conigli meravigliosi. Uno su tutti, diviso tra la carta stampata e la pellicola: Topolino. Il punto di svolta dell’arte cinematografica di Disney arriva con Biancaneve e i sette nani (1937). Un lungometraggio moderno che incanta i bambini come i grandi. Lo adorano il regista comunista Sergej M. Ejzentejn e lo scrittore fascista Robert Brasillach. Il film rappresenta uno spartiacque. Il cartone animato dopo Biancaneve ha un solo indiscusso punto di riferimento: Walt Disney. Il suo genio sforna nei tre decenni successivi opere sbalorditive: Pinocchio (’40), Fantasia (’40), Dumbo (’41), Alice nel paese delle meraviglie (’51), Le avventure di Peter Pan (’53), La spada nella roccia (’63). Il successo planetario è inarrestabile. Disney fonda un proprio studio, mescola il cartone animato con la finzione (Mary Poppins del ’64 è il modello insuperabile), riceve premi, guadagna dollari a palate. Non è più un cartonista-regista-artista: è l’America. L’immagine dell’America nel mondo americanizzato. Muore nel 1966, quando ad Hollywood la fiducia nel futuro sembra essere svanita. I «vecchi titani» che spesso hanno guardato Disney dall’alto in basso, stanno cedendo le loro case di produzione. Il futuro però è della Disney. La televisione, la nuova finanza e il consumismo stanno integrandosi nella produzione cinematografica. La Disney ha tutto. Nei quasi sessant’anni che seguono la scomparsa del fondatore, il cartone animato si trasforma in Disneyworld.
Walt Disney in vita ha avuto parecchi detrattori. Molti non gli hanno perdonato le sue simpatie per le dittature fasciste degli anni Trenta. Ma polemiche, controversie e incidenti di percorso non mutano la sostanza della realtà. Il «papà di Topolino» deve essere annoverato fra i massimi cantori della cultura occidentale, ovviamente in «salsa WASP» (bianca, anglosassone e protestante). Il «canone occidentale» ha trovato in Disney l’intelligente illustratore attraverso il cartone animato. Nella dimora dove Disney è sepolto da qualche anno si avvertono forti sommovimenti tellurici. È Walt che si gira e rigira, a causa della tendenza «politicamente corretta» adottata dal suo impero. Oggi l’universo disneyano si sta scrivendo o riscrivendo seguendo i dettami della «cancellazione culturale». Una caratteristica propria del turbocapitalismo attuale consente all’ideologia di reggere le redini dell’economia, orientandone le finalità. L’ideologia «gender» è il nuovo, ferreo codice di produzione multimediale. Walt Disney è stato un umanista. Basta ascoltare il dialogo tra il mago Merlino e lo scudiero-sguattero Semola (diventerà Re Artù) in La spada nella roccia. «La cosa migliore da fare quando si è tristi», replicò Merlino, cominciando a soffiare e sbuffare, «è imparare qualcosa. È l’unica cosa che non fallisce mai. Puoi essere invecchiato, con il tuo corpo tremolante e indebolito, puoi passare notti insonni ad ascoltare la malattia che prende le tue vene, puoi perdere il tuo solo amore, puoi vedere il mondo attorno a te devastato da lunatici maligni, o sapere che il tuo onore è calpestato nelle fogne delle menti più vili. C’è solo una cosa che tu possa fare per questo: imparare. Impara perché il mondo si muove, e cosa lo muove». Un piccolo condensato di sapienza greca, romana, giudaico-cristiana (quindi biblica), scespiriana e, in ultimo, appunto a chiudere il «canone», disneyana. La storia, un po’ come le montagne russe, è un alternarsi di salite e discese. L’orribile moda «politicamente corretta», essendo una moda, finirà anch’essa per tramontare. Così il sorridente Walt Disney potrà smettere di agitarsi, tornando a dormire serenamente. Come merita.