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 2023  agosto 27 Domenica calendario

Intervista a Gazebo

Numeri: il suo primo singolo ha venduto circa un milione di copie, il secondo, I Like Chopin, ha toccato i 12 milioni (“oramai è un evergreen”).
Lui si chiama Gazebo, per la famiglia è Paul Mazzolini, 63 anni da Roma (“Con il nome d’arte all’estero non sapevano che ero italiano”) ed è uno dei massimi rappresentanti della Italo disco, fenomeno anni 80 che ha segnato un tratto marcato della musica internazionale.
Altri numeri: sono quarant’anni dal suo debutto e sono quarant’anni da Vacanze di Natale: nella colonna sonora I Like Chopin è il brano simbolo (“eppure quanti detrattori…”).
Tanti?
All’epoca la scelta della dance cantata in inglese, ma prodotta in Italia, ha generato malumori tra i puristi del rock o della stessa disco music.
Pure dalla disco music?
Era monopolio di Stati Uniti e Inghilterra.
Possedeva un perfetto inglese.
Mia madre è di origine statunitense, papà diplomatico: sono cresciuto all’estero in scuole anglofone; (sorride) anche se ho iniziato con la musica grazie all’istituto hippie di Copenaghen.
Lei a una scuola hippie?
Ci sono finito a nove anni, esperienza magnifica: c’era totale libertà, se in classe ti annoiavi potevi uscire, magari prendere la chitarra e suonare. In quella scuola sentivi sempre i Beatles nell’aria. Era il 1968.
Come mai il figlio di un diplomatico in una scuola hippie?
I miei furono costretti a darmi una mano: eravamo in Giordania durante la Guerra dei Sei giorni e papà chiese il trasferimento in altra sede, la Danimarca. Però era metà anno scolastico, non c’era posto in nessun altro istituto, l’unico era l’hippie. La mia vita sconvolta.
A otto anni…
Venivo da un’educazione cattolica; (pausa) a Copenaghen era tutto aperto, tutto libero, pure i rapporti con l’altro sesso. Una cosa pazzesca.
E i suoi genitori?
Dopo sei mesi mi hanno di nuovo portato in collegio. Ma oramai ero innamorato della chitarra: per fortuna mamma da ex musicista ha finanziato questa passione: potevo cantare liberamente.
In inglese.
Era normale.
Negli anni 80 alcuni suoi colleghi avevano un inglese terribile.
(Ride) C’era Ryan Paris con un deciso accento di Trastevere: seguirlo fu un’impresa ardua.
Per lui ha scritto Dolce vita.
Nonostante tutto, il brano è entrato nella Top 5 in Inghilterra; Dolce vita è un pezzo nato prima come idea.
Cioè?
Mi sembrava assurdo che non esistesse un pezzo intitolato così, perché era un brand internazionale; (sorride) però il discografico non ne era convinto, amava di più I Like Chopin, e viste le vendite aveva ragione: nel 1983 è stato il disco più venduto in Europa.
Prima del successo lei com’era?
Nel 1974 sono tornato in Italia, suonavo con dei gruppi, dentro le cantine e amavo tantissimo la musica progressive dei Genesis e degli Yes.
Con il ciuffo e la posa era un perfetto esponente degli anni 80…
Pensare che da adolescente ero un capellone, un po’ cicciottello, quasi selvaggio, ma iscritto a Roma in una scuola altolocata francese: la Chateaubriand. Lì ho incontrato gente che non sapeva neanche cosa fosse il soldo.
Tradotto?
Talmente ricchi da non conoscere il valore dei soldi.
Come si trovava?
Il 90 per cento dei ragazzi mi schifava; poi siccome era una scuola statale francese, doveva accettare i figli dei cittadini francesi, a prescindere dalla classe sociale, quindi persone normali: uscivo con loro.
Non era un “pariolino” da Piper…
Parliamo degli anni 70, dove già i capelli lunghi ti inquadravano come compagno; in realtà non ero politicamente schierato.
Quindi?
Quando c’erano le feste venivo sistematicamente preso di mira, spesso dovevo scappare; (sorride) non solo, se andavo a studiare a casa di qualcuno, prima di uscire dal portone, guardavo a destra e sinistra, solo per capire se la strada fosse libera. E poi correvo; (sorride) ero proprio cicciottello.
La svolta?
Dopo la maturità ho iniziato con lo sport e soprattutto con i viaggi in Inghilterra per partecipare ai raduni rock e punk…
Obiettivo, diventare musicista?
In realtà non credevo di avere delle chance, da amante della natura e degli animali pensavo più a un futuro da veterinario o da zoologo, peccato che in matematica ero pessimo, meglio nelle materie umanistiche…
Soluzione?
A Roma avevo iniziato a collaborare con dei dj, perché avevano bisogno di qualcuno che scrivesse testi in inglese e in quell’ambiente mi parlarono di un club londinese dove si suonava una musica chiamata New Romantics: lì trovai i Duran Duran, gli Spandau Ballet, con Boy George che era la guardarobiera. Da lì a poco ho scritto Masterpiece.
Un successone.
Al tempo non c’erano i computer, è un pezzo suonato a mano, a parte la batteria elettronica prestata da Jimmy Fontana.
Jimmy Fontana?
Era un mito: andava in giro per negozi di strumenti per comprare le ultime novità; così acquistò la prima batteria elettronica con i suoni campionati, un oggetto fantastico e costosissimo, valeva quanto una casa.
Le prestò un oggetto così prezioso?
Jimmy era generoso; lo incontrai dopo anni e gli chiesi della batteria. “Esiste ancora”. “Me la vendi?”. L’ho presa per cinquantamila lire: è un oggetto al quale sono legatissimo.
Il successo com’è arrivato?
Ho girato un anno con in mano la registrazione di Masterpiece: nessuno la voleva.
E lei?
Andavo avanti, ne ero convinto; eppure passavo dalle critiche perché era in inglese, alla proposta di darla a Bobby Solo; alla fine mi sono presentato dal proprietario di una piccola etichetta, la Baby Records, con il quale ogni tanto collaboravo: “Non ho un grande budget, vediamo cosa accade”.
Quanto ha venduto?
Masterpiece circa un milione, ma è stato soprattutto un grande successo nei club, anche in Inghilterra; (sorride) una volta ero ospite di una trasmissione belga e sento bussare al camerino; apro e trovo Holly Johnson (leader dei Frankie Goes to Hollywood). Lo guardo e mi scuso: “Questo è il mio camerino, il vostro è più avanti”. Lui stupito: “Volevo complimentarmi per Masterpiece”.
Lei così tanto low profile?
Per forza: in Italia ci sfondavano, i giornalisti continuavano a definire la nostra musica come quella di cloni, eravamo una serie B, più o meno come nel cinema gli spaghetti western degli anni Settanta.
Sono diventati cult.
I Pet Shop Boys (altro gruppo celeberrimo) venivano puntualmente in Italia, si riempivano di vinili e copiavano le nostre cose.
Contrattualmente si è cautelato?
Avevo 23 anni e non una grande esperienza; per fortuna firmai con una vera casa discografica, mentre quasi tutti i miei colleghi siglavano accordi con i grossisti; soprattutto mi salvò l’esperienza della vendita di enciclopedie porta a porta.
Come?
Per acquistare gli strumenti avevo firmato non so quante cambiali, così mi ero dedicato al porta a porta; lì avevo imparato che più vendevo più si alzava la percentuale di guadagno: applicai la stessa clausola con la Baby Records; superate le 200mila copie avrei ottenuto molto.
Lungimirante.
Macché, dentro di me ridevo e pensavo: “È impossibile”.
Quante enciclopedie ha venduto?
Pochissime, spesso mi incazzavo, il trattamento delle persone non era proprio eccellente, a volte infilavo il piede nella porta e scattava la lite.
Quali altri lavori?
Per due giorni gelataio: cacciato perché troppo lento; poi l’apri-porta in un pub romano.
I suoi non la sostenevano?
Sì, ma a 18 anni sono andato a vivere da solo; a volte non riuscivo a pagare la bolletta della corrente, così la staccavano.
Il successo l’ha travolta?
Da una parte sono stato fortunato: l’immagine di me in televisione, tutto tirato, con il gel e il papillon, non rispecchiava la persona che la mattina usciva per la spesa al mercato; in somma, non mi riconoscevano e non sono mai stato un viso nazional-popolare.
Una fortuna?
Sì, la mia vita è stata tutto sommato normale.
Primi guadagni?
Dopo un po’ andai dal proprietario della casa discografica: “Da un mese siamo quinti in classifica, posso avere qualcosa?”. Io immaginavo 200 o 300mila lire, invece aprì il libretto degli ’assegni, scrisse qualcosa, strappò e disse “Va bene questa cifra?”. Erano 30 milioni.
Svenuto…
Uscii dall’ufficio e non sapevo neanche come riscuoterli: dovetti chiedere aiuto a mia madre.
Da girare la testa.
Comprai subito un televisore e poi la Porsche.
I fan?
Ogni tanto uscivo di casa e trovavo le ragazze appostate dietro le macchine, ma niente a che vedere con altri musicisti; (sorride) quando giocavo con la nazionale dei cantanti mi sono consolato: ho visto quanto erano bersagliati i miei colleghi, soprattutto Eros Ramazzotti; rispetto a lui la mia vita era tranquillissima.
Senza invidia.
Non ha presente il loro stress; Eros allora era giovane, non sapeva come comportarsi, era in difficoltà.
La vera svolta con Vacanze di Natale?
Ha portato I Like Chopin a una dimensione iconica, e il film è diventato un cult movie.
Per lei lo è?
Insomma, con tutto il rispetto per i Vanzina non è proprio il mio cinema; (sorride) anche Carlo ed Enrico sono “figli” dello Chateaubriand.
Come si sentiva sul palco?
All’inizio avevo tantissima ansia, ero più abituato a stare con una band, non da solo; (ride) ancora lavoravo come apri-porta, poi una sera mi chiamano: “Domani devi andare in Germania, il disco è entrato in classifica e sei ospite di una trasmissione tedesca”. Era una sorta di Festivalbar (cambia tono di voce) lì, mentre salgo sul palco, vedo scendere Elton John che mi saluta. Ero un po’ spiazzato…
Come mai finì il binomio con la Baby Records?
Perché il patron mi voleva far diventare un pupazzo; un giorno mi spiegò la sua idea di me: “Non credo nell’artista, credo nel prodotto”. Con la presunzione del 24enne me ne andai e pagai la penale.
Cara?
Il 50 per cento dei miei guadagni; con il resto mi sono comprato la casa e ho allestito uno studio di registrazione; quello studio è stata la mia salvezza, mi ha permesso di sopravvivere quando negli anni 90 la nostra musica è stata messa da parte; (sorride) ero economicamente talmente a zero da non potermi permettere neanche un fonico, ci pensavo io.
Da lei venne Patty Pravo.
Quando mi contattarono ammisi la mia condizione: “Guardate che non ho neppure il riscaldamento”. “Non importa”. Patty fantastica, con mia moglie stavano con il cappotto dentro casa.
Ha mai rischiato di perdersi?
Per fortuna ho sempre guardato avanti, tanto da aprire un agriturismo a sessant’anni.
Lei chi è?
Un chitarrista fallito e un cantante per caso; (sorride) e poi sono un visionario: nel 1984 ho comprato il primo Mac e nel 1994 ho capito Internet, quindi ho ri-registrato i miei master per metterli online.
Oggi avrà dei begli introiti dai diritti…
I Like Chopin e Dolce vita sono diventati degli evergreen internazionali, potrei tranquillamente ritirarmi e vivere di rendita…