la Repubblica, 27 agosto 2023
Il furto al British Museum
Un pasticcio che ha danneggiato la nostra reputazione, ma rimetteremo tutto a posto». In un sabato mattina di fine agosto, George Osborne confessa alla radio della Bbc l’imbarazzo e l’amarezza per quanto accaduto al British Museum, l’istituzione di cui presiede il consiglio direttivo. Duemila oggetti scomparsi, probabilmente rubati, non si sa in che arco di tempo, tra cui monili d’oro e preziosi che vanno dal quindicesimo secolo avanti Cristo all’Ottocento: i responsabili del museo se ne sono accorti due anni fa, ma soltanto nel febbraio scorso hanno licenziato un dipendente sospettato dei furti, il curatore delle collezioni elleniche Peter Higgs, fino a quel momento stimatissimo, e ancora più di recente si sono finalmente decisi ad avvisare la polizia, avendo chiaramente sperato fino all’ultimo di contenere lo scandalo.
Scotland Yard ha aperto un’inchiesta, interrogato Higgs, per adesso senza incriminare nessuno. Il direttore, Hartwig Fischer, tedesco, primo straniero a dirigere un museo britannico dal 1856 (quando a dirigere il British fu chiamato un esule italiano amico di Ugo Foscolo, il patriota risorgimentale Antonio Panizzi), ha dato le dimissioni. Il suo vice si è autosospeso. La stampa inglese lo chiama “il giallo dell’estate”. Forse per risolverlo ci vorrebbe Sherlock Holmes, il cui autore, sir Arthur Conan Doyle, per combinazione visse per anni in una viuzza adiacente al palazzo dalle colonne neoclassiche diventato simbolo della cultura britannica e mondiale.
Per capire come è stato possibile perdere duemila reperti storici di valore inestimabile senza accorgersene, tuttavia, è sufficiente continuare ad ascoltare Osborne.«Abbiamo cominciato a recuperane qualcuno», dice l’ex ministro del Tesoro del governo conservatore di David Cameron. «Alcuni membri della comunità dell’antiquariato stanno attivamente cooperando con noi nelle ricerche. Siamo fiduciosi che le persone oneste, appreso che si tratta di oggetti rubati, li restituiranno. Altri, purtroppo, non lo faranno. Il problema è che non tutti gli oggetti in possesso del museo sono appropriatamente catalogati. Un individuo che sappia quali non lo sono ha un grosso vantaggio nel sottrarli. Ovviamente la sicurezza del museo ha bisogno di essere rafforzata».
Per la precisione, la collezione del British Museum ha più di otto milioni di oggetti: non per niente è considerato il museo più grande del mondo. Ma soltanto centomila sono esposti al pubblico nelle sue sale e non è chiaro quanti degli altri sette milioni e novecentomila siano accuratamente registrati nei suoi archivi. Antiquari, collezionisti e cacciatori di tesori d’arte trafugati commentano che in realtà nessuno sa fino in fondo cosa è custodito dietro le porte di questo tempio della conoscenza umana.
Di sicuro, non erano in alcun elenco i duemila oggetti rubati del caso in questione: giacevano in un magazzino sotterraneo, a impolverarsi dentro armadietti e cassetti, ufficialmente per possibili studi accademici, in pratica semi dimenticati, come la maggior parte dei tesori del British. Rubare qualcosa che il proprie tario non è consapevole di avere: ecco il furto perfetto, il più difficile da provare. Ancora più difficile, osservanoi maligni, se il derubato è stato in un certo senso a sua volta un ladro.
Fondato nel 1753 sulla collezione di 71 mila oggetti di sir Hans Sloane, rinomato medico inglese dell’epoca, il British Museum aprì al pubblico sei anni più tardi nella magnifica Montagu House, tuttora la sua residenza (sia pure con numerose aggiunte), nel cuore di Bloomsbury, quartiere centrale di Londra, popolato di case editrici e uffici legali, in seguito prediletto da scrittori: ci abitarono Charles Dickens e Virginia Woolf.
Nei duecentocinquant’anni successivi, la sua espansione è stata in larga misura il risultato della colonizzazione britannica, ovvero delle opere di ogni genere che l’Impero più grande della storia, allargato su tutti i cinque continenti, prelevava in un modo o nell’altro e trasferiva nella propria capitale. Così tanta roba portavano via i colonizzatori inglesi che a un certo punto il British Museum comprese di averne troppa e la distribuì altrove: settanta milioni dei suoi reperti finirono per formare il Natural History Museum, nel quartiere di Kensington, organizzati in collezioni di botanica, entomologia, mineralogia, paleontologia e zoologia; i libri, 200 milioni di titoli, formarono la British Library, vicino alla stazione ferroviaria di King’s Cross, sebbene il British Museum abbia conservato la Reading Room, splendida sala di lettura della biblioteca originaria. La volle Panizzi, l’allora direttore italiano del museo: non a caso la cupola è ispirata dal Pantheon di Roma. Sui suoi banconi sono venuti a leggere molti dei più celebri letterati, intellettuali ed esuli in Inghilterra, tra cui Karl Marx, Giuseppe Mazzini, Oscar Wilde, Rudyard Kipling, Vladimir Lenin, George Bernard Shaw, Mark Twain, Arthur Rimbaud, George Orwell e il Mahatma Gandhi.
Anche senza ossa di dinosauro e antichi volumi, la collezione del British Museum è rimasta di una ricchezza incomparabile. La banca dati pubblicata online dallo stesso museo cita due milioni di oggetti, un quarto del totale, di cui 600 mila illustrati, dei quali 4 mila con ampia descrizione. I centomila esposti al pubblico sono suddivisi in Antico Egitto e Sudan, Grecia e Roma, Medio Oriente, Gran Bretagna, Europa e Preistoria, Asia, Africa, Oceania e Americhe.
La lista dei suoi tesori è troppo lunga per un articolo di giornale. Si fa prima a ricordare alcuni dei tesori contesi, che i Paesi a cui furono portati via vogliono indietro: la stele di Rosetta (la pietra che rivelò come tradurre i geroglifici in greco antico), richiesta dall’Egitto: i marmi o fregi del Partenone, richiesti dalla Grecia; i bronzi del Benin, richiesti dalla Nigeria; i manoscritti del Dunhuang, richiesti dalla Cina; l’Hoa Hakananaia, una statua dell’Isola di Pasqua, richiesta dal Cile; le Tavole della Legge, richieste dall’Etiopia. Il contenzioso legale su queste opere, che durada anni, si è riacceso sotto una nuova luce alla notizia dei furti di questi giorni: «È la dimostrazione che i marmi del Partenone non sono al sicuro al British Museum, ragione di più per restituirceli», afferma Despoina Koutsoumba, archeologa greca, provocando l’irata risposta di un deputato britannico, Tim Loughton, secondo il quale il resto del mondo non dovrebbe fare appelli «opportunistici», bensì dare una mano a ritrovare gli oggetti scomparsi. La vittima originaria del furto, potrebbero di nuovo osservare i maligni, che aiuta il ladro a recuperare la refurtiva rubata da un altro.
«In un’era in cui ci viene rammentato di continuo che cosa ci divide», replica il presidente del museo George Osborne, «il British Museum ci ricorda che cosa abbiamo in comune»: decine di migliaia di anni di arte e sapienza, la storia del pensiero umano, racchiusa dietro le colonne del palazzo neoclassico di Bloomsbury. Il che spiega i sei milioni di visitatori l’anno, compresi moltissimi turisti stranieri(anche perché l’ingresso è gratuito), che ne fanno il museo più popolare del Regno Unito e il terzo più popolare del mondo.
Naturalmente, il British non è l’unico museo ad avere subito furti: sono stati rubati capolavori di Van Gogh, Munch, Picasso, un Rembrandt addirittura quattro volte, entrando nel Libro dei Primati come il quadro più trafugato di tutti i tempi. «Ma il British Museum, probabilmente per carenza di investimenti, ha gravemente trascurato di catalogare la propria collezione», accusa il professor Dan Hicks, direttore del Pitt Rivers Museum dell’università di Oxford, «il che è inammissibile, perché facilita il compito ai ladri».
Che sia stato o meno il curatore di arte ellenistica a portare via i duemila monili scomparsi, infatti, gli esperti ammoniscono che nei musei il colpevole di un furto va quasi sempre cercato fra il personale interno. L’equivalente del maggiordomo nei thriller alla Agatha Christie. Elementare, Watson, direbbe Sherlock Holmes.