la Repubblica, 27 agosto 2023
Il calcio degli sceicchi
Il 22 novembre 2022, al dorato stadio di Lusail in Qatar, sono da poco passate le 13 locali quando l’arbitro sloveno Slavko Vin?i? decreta la vittoria della piccola Arabia Saudita contro l’attesissima Argentina, a cui il destino riserverà di lì a un mese la gioia del trionfo nel Mondiale. Ma quella vittoria rappresenta il momento esatto in cui tutto è cambiato, a Riad. Perché quella soddisfazione inattesa – battere Lionel Messi, il più forte calciatore del mondo – innesca una reazione a catena in Arabia che, nove mesi dopo, si è tradotta in un fenomeno inatteso proprio come quella vittoria: la trasformazione del campionato nazionale saudita nel nuovo polo di attrazione del calcio mondiale. L’onda ha iniziato ad alzarsi in quella sera di novembre, quando le torri gemelle del Ministero dell’Economia di Doha si sono colorate con la bandiera saudita, mentre auto qatarine correvano lungo la panoramica Corniche sventolando le insegne dei rivali arabi. In quel momento, a Riad hanno capito la potenza del calcio. E si sono convinti che rendere grande un club straniero non avrebbe mai fatto di loro ciò che volevano essere: il faro del mondo arabo, non solo per i pellegrini che visitano la Mecca. Ma anche nel calcio.
Il progetto è cambiato in quel momento. Imparando dagli errori di chi quel Mondiale lo aveva organizzato facendo oltre l’impossibile per avere nella propria squadra le stelle del torneo. Solo che Mbappé, Messi e Neymar a Doha non erano gli ambasciatori del Qatar, ma del Paris Saint-Germain, quindi del calcio europeo: l’emirato non ne era che un generosissimo datore di lavoro. «Perché sviluppare il prodotto degli altri?», hanno iniziato a chiedersi gli uomini del governo di Mohammed bin Salman, il principe dell’Arabia Saudita. Con un’idea: riprendersi il ruolo di guida del Medio Oriente. Anche in questo nuovo universo diviso in blocchi e in cui a spostare cascate di denaro non è più il petrolio, ma è il divertimento. Comprando l’intero luna park. Lo hanno fatto con il golf, assoldando con contratti esclusivi tutti i giocatori del circuito fino a costringere il Pga Tour americano a trovare un accordo con LIV Golf controllato dal fondo Pif – Public investment fund – la cassaforte di stato dei sauditi che gestisce 600 miliardi di asset nel regno. Tornerà eccome, in questa storia.
È proprio Pif che, dopo una trattativa fiume, ha acquisito il Newcastle in Premier League (la squadra che in questa estate ha acquistato Tonali dal Milan per 80 milioni) portandolo in pochi mesi dalla zona retrocessione alla Champions League. Ma è solo una piccola fiche sul mercato dello sport mondiale. Perché il fondo di stato di Riad ha già aperto i contatti con l’Atp del tennis per rilevare il 49% del prodotto, prossimo parco giochi su cui mettere le mani: da novembre, anche la Next Gen di tennis traslocherà in Arabia, dopo gli anni a Milano. Senza contare la Formula 1, che dal 2021 ha il suo Gp a Gedda. La strategia è sempre la stessa: una valanga di denaro da rovesciare in un settore, spostandone l’equilibrio, fino a monopolizzarne il business. Anche se all’inizio chi ha a che fare con i sauditi è convinto di aver preso all’amo quelli che nello sport di solito sono i ricchi scemi.
Nulla di più sbagliato.dicono gli americani: i migliori del proprio settore. Quasi un’ossessione, per i sauditi: la patria di Maometto, la casa dell’Islam, la guida del mondo arabo. E perché non anche di tutto ciò a cui il mondo arabo si sta aprendo? Il traino è il progetto Vision 2030: un programma di sviluppo per fare dell’Arabia Saudita il Paese del futuro. Se il 15% degli investimenti infrastrutturali al mondo è concentrato nella penisola è per un intendimento chiarissimo: non lasciare il turismo dell’area all’esclusiva di Dubai e Abu Dhabi. Anzi, imporsi come la nuova meta del divertimento, contando anche su una società in trasformazione, in cui le donne occupano, sorprendentemente, molti incarichi di potere (pensare che fino a cinque anni fa era loro precluso anche guidare) e con l’idea niente affatto celata di attirare investimenti e capitali, affrancandosi dalla dipendenza economica dai carburanti fossili, condannati alla scomparsa. L’idea è puntare almeno dieci segmenti di mercato, con la consapevolezza che se poi qualcuno di questi dovesse dimostrarsi poco redditizio potrà essere abbandonato in corsa.
Così, in pochi anni dalle parti di Riad sono stati capaci di trasformare il deserto in 1600 chilometri di spiagge attrezzate sul Mar Rosso, come da Marsiglia a Reggio Calabria: bellezza fuori scala capace di far concorrenza non solo a Sharm, ma addirittura alle Maldive. Il manifesto del progetto Vision 2030 è Neom, una città che entro il 2025 sarà realizzata da zero per diventare il cuore dell’entertainment business mondiale: 170 chilometri lungo la costa del Mar Rosso da strappare al deserto. La parte superiore per i pedoni e le altre due, sotterranee, riservate al traffico, alle metropolitane, ai trasporti e alle infrastrutture. Di fatto si prevedono tre città in una. C’è Trojena con i suoi monti, dai 1500 ai 2600 metri sul livello del mare, “il luogo ideale per gli sport invernali e d’avventura, ma anche per vivere e lavorare con una temperatura media più fresca del resto della regione”: ospiterà i Giochi Asiatici invernali del 2029, quasi una sfida alla logica. C’è Oxagon, sulla struttura galleggiante più grande al mondo: “alimentata al 100% da energia pulita, reinventa la zona industriale”.
C’è The Line, che si insinua nel deserto con la sua forma a spina dorsale tra due file di grattacieli, per vivere e per divertirsi: la promessa è “il paradiso ecologico”. C’è, infine, un’isola artificiale nel Mar Rosso: Sindalah, “la più lussuosa del mondo”. Ed elicotteri a guida autonoma per la mobilità. Il futuro in forma solida. E dal progetto non poteva certo restare fuori il calcio, in un Paese di 36 milioni di persone votate al pallone, compresa la sempre più nutrita rappresentanza di tifose. Il loro ingresso sempre più consistente negli stadi ha accelerato nel Paese l’emancipazione femminile, anche se i diritti delle donne restano ben lontani dagli standard occidentali.
Un campionato stellare
Domenica 11 dicembre 2022, interno giorno. Atrio di un lussuoso ristorante sulla Corniche di Doha con vista sul Golfo Persico solcato dai dhow, le barche a vela storiche della tradizione araba, restaurate per l’occasione. Rudi Garcia, allenatore dell’Al-Nassr di Riad, si trova in Qatar per commentare su Tf1 il Mondiale di calcio, che sta entrando nella settimana finale. Non vuole parlare, si prova a forzarlo: in fondo, è concreta l’ipotesi che il francese possa diventare presto l’allenatore di Cristiano Ronaldo, che potrebbe a sorpresa sbarcare in Arabia Saudita. Non ci crede nessuno. Tranne Garcia: «Vi posso dire che l’offerta c’è ed è enorme. Decide tutto il principe. Lui vuole un campionato stellare».
Il principe è Mohammad Bin Salman, 37 anni, dal settembre 2022 primo ministro dell’Arabia Saudita, ritenuto da un rapporto Onu del 2019 il responsabile dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Kashoggi, entrato nell’ottobre 2018 nel consolato saudita a Istanbul senza più uscirne. Che in quei giorni del Mondiale qatarini qualcosa stesse succedendo, sul fronte mediorientale, lo racconta anche un altro episodio: a margine della cerimonia d’inaugurazione del Mondiale di Doha, lo scorso novembre, andò in scena un vertice informale dell’area araba, col presidente turco Erdogan, quello egiziano Al-Sisi, lo sceicco del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, il re di Giordania Abdullah II, il presidente palestinese Abbas e appunto il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.
Un campionato stellare, diceva Garcia. È bastato attendere qualche mese per vederlo diventare realtà. Il punto di caduta è definito: che una squadra saudita possa vincere il Mondiale per club del 2025, il primo a 32 squadre della Fifa. Lo giocherà di certo l’Al-Hilal di Milinkovic e Koulibaly, quest’anno proveranno a prendersi l’ultimo posto in palio per l’Asia i campioni in carica dell’Al-Ittihad, rinforzati con Benzema e Kanté, alcuni dei campioni arrivati in estate in Arabia. Ai nomi di queste squadre siamo già abituati, dopo mesi di calciomercato. Il motivo? Un progetto di stato, finanziato dal fondo Pif che ha rilevato il 75% delle quattro squadre più importanti: oltre ad Al Hilal e Al-Ittihad, anche Al-Ahli e ovviamente l’Al-Nassr di Ronaldo. Ci sarebbe anche l’Al-Ettifaq: la squadra allenata da Gerrard, la stessa che ha strappato al Liverpool il capitano Henderson (neutralizzando l’arcobaleno della sua fascia da leader stingendolo nelle foto ufficiali in sobrie sfumature di grigio) è controllata dal fratello di un importante dirigente del governo saudita. Se non avrà il sostegno economico, avrà almeno quello politico.
La cena per convincere Benzema
Ufficialmente, il responsabile dello shopping saudita è il nigeriano Michael Emenalo, direttore del calcio, acquisizioni di giocatori e sviluppo del club. Passa per lui la scelta dei nomi e delle strategie, come fosse il direttore sportivo dell’intero movimento, di cui è amministratore Carlo Nohra, ex ad della federazione emiratina e della WWE di wrestling per l’Asia. Ma la questione ha anche una forte matrice politica. Infatti, tutte le trattative devono avere l’indispensabile avallo del principe bin Salman. Il quale vuole creare il massimo equilibrio competitivo possibile e conduce le trattative in prima persona. Quella per Benzema, ad esempio, l’ha sbloccata una cena col giocatore, convinto a lasciare il Real Madrid, con un anno d’anticipo sulla scadenza del contratto, dalla prospettiva di guadagnare 50 milioni a stagione fino al 2026. Ma di tutte le acquisizioni si occupano figure del governo, che contattano i club e i giocatori senza intermediari. La squadra, in verità, è per molti aspetti un particolare secondario: l’assenso si dà per giocare nella Saudi Pro League, poi la scelta del club è facoltà del governo. Di fronte a questa incognita si è arenato talvolta il reclutamento degli allenatori vip, più difficili da convincere (Rino Gattuso l’esem- pio italiano) rispetto ai calciatori, anche perché i loro contratti sono meno ricchi: i portoghesi Nuno Espirito Santo e Jorge Jesus, l’inglese Steven Gerrard e il croato Slaven Bilic sono per ora i più rinomati. Zinedine Zidane avrebbe rappresentato l’eccezione a livello di stipendio, ma non si è lasciato tentare. Al contrario, per i calciatori che devono indossare maglia e pantaloncini delle squadre di Gedda o Riad, c’è una sorta di listino prezzi, o meglio, di moltiplicatore: le offerte dei club sauditi partono dalla cifra percepita dal calciatore moltiplicandola per quattro. Prendete Osimhen: tratta col Napoli un rinnovo a 10 milioni netti? L’offerta è di 40. Ma possono esserci delle eccezioni: a Messi, che di milioni ne guadagnava 35, hanno offerto quasi dieci volte quella somma. Leo alla fine ha scelto Miami, ma ha un contratto da testimonial che gli garantisce 22,5 milioni di euro, come svelato dal New York Times, per andare in vacanza (pagata) almeno una volta l’anno in Arabia Saudita e reclamizzarne l’immagine con i post sui social. Unica condizione: non scriverenulla che possa offuscare l’immagine del Paese. Il prezzo del silenzio.
Il casting dei dirigenti
«Abbiamo risorse e le stiamo utilizzando per assicurarci, una volta costruita l’infrastruttura, che i giocatori che sono qui siano i migliori in assoluto», dice Michael Emenalo. «Vogliamo che le nostre squadre possano arrivare a competere con i migliori club europei, ma questo richiederà ancora molto lavoro». Per questo, il prossimo passo sarà donare alle squadre dei dirigenti capaci di farne crescere il progetto politico. Due società di “cacciatori di teste” della zona hanno iniziato da tempo uno screening su 25 nomi di manager internazionali provenienti dall’Europa e dallo sport industry americano. La selezione ha poi scremato una short list di 8 nomi, da cui usciranno i 4 amministratori delegati delle 4 squadre del fondo Pif. Nel frattempo, la Saudi League ha aperto un ufficio a Londra in cui lavorano 10 persone, presto saranno 15: addetti alla comunicazione, legali internazionali, tutti assunti con lo scopo di promuovere il modello, di convincere gli incerti, di raccontare il progetto. Per ora, anche garantendo nei contratti una clausola di uscita: Benzema, che ha già avuto i primi screzi con il suo allenatore, ha spuntato una opzione call per lasciare il club nel 2025 a condizioni fissate. E non è l’unico.
Una questione di tasse
Anche perché il Bengodi potrebbe anche non rivelarsi tale: non solo per le condizioni climatiche e per le restrizioni di un Paese in cui vige l’integralismo musulmano, ma anche perché il rischio di ritrovarsi alle prese con una causa giudiziaria legata a controversie economiche è abbastanza alto. La statistica riportata dalla Fifa è di una cinquantina di casi l’anno. La situazione sembra nel frattempo migliorata e le esigenze di immagine lasciano presagire una linea meno rigida nei rapporti di lavoro. Ma che sia tutto davvero luccicante come sembra è un tema già abbastanza controverso. La questione più sensibile è certamente la materia fiscale. Lo straniero che vive e lavora in Arabia Saudita gode di un trattamento molto favorevole: in pratica deve versare solo il 2% dei guadagni per lo Stato sociale e, se lo vuole, la tassa islamica di solidarietà sociale del 2.5%. Al rientro nel Paese di resi- denza abituale, però, scatta la tassazione nazionale. Che ad esempio, nel caso dell’Italia, può decurtare la metà dei guadagni. A meno che il calciatore non si sia trasferito lì con la famigliae sia iscritto all’Aire(l’anagrafe degli italiani residenti all’estero), con l’obbligo di trascorrerenel Paese sei mesi e un giorno di un anno solare. Il cavillo potrebbe riguardare soprattutto chi ha uno stipendio più basso – tecnici dello staff, fisioterapisti, preparatori atletici – e che non ha dunque convenienza a spostare la famiglia in Medio Oriente: la mazzata delle tasse, al rientro in patria, può essere notevole. Fermo restando che il governo saudita sta cercando di creare le condizioni per una vita più vicina agli standard occidentali, in aggiunta agli allettanti contratti pluriennali: nei compound per i calciatori e per le loro famiglie anche le strette regole religiose, con la totale separazione tra uomini e donne, sarebbero più allentate.
Anche l’Italia s’è fatta attrarre dal nuovo paradiso. E non da oggi. A marzo, la Lega Serie A ha ceduto nuovamente ai sauditi l’organizzazione della Supercoppa italiana. Allargando addirittura la precedente collaborazione, avviata nel 2018. A gennaio a Riad non ci saranno più due italiane, le vincitrice del campionato e dela coppa Italia che storicamente si contendevano il trofeo, ma 4 squadre: oltre a Napoli e Inter, detentrici dei due trofei, anche le seconde, Lazio e Fiorentina. Un accordo da 23 milioni di euro a stagione con l’impegno di disputare da quelle parti almeno 4 edizioni in sei anni. Ma non solo le società italiane, che hanno preferito la proposta saudita a quella di un altro paese arabo, gli Emirati, si sono fatte sedurre. Persino la più importante figura sportiva del nostro Paese ha stracciato il contratto con la Federcalcio per trasferirsi a Riad. Il 6 settembre sarà ufficializzata la firma dell’ormai ex ct azzurro Roberto Mancini come nuovo allenatore della nazionale saudita. La proposta da 20 milioni netti all’anno più un pacchetto illimitato di voli per l’Italia e bonus per la qualificazione ai prossimi Mondiali, su cui meditava da fine giugno, lo ha convinto alle dimissioni di Ferragosto dalla Nazionale, che hanno spinto sulla panchina dell’Italia Luciano Spalletti. Ma attenzione, nonostante quell’assegno generosissimo, nessuno chiederà a Mancini di raggiungere traguardi impossibili. E il motivo non è una carenza di ambizioni. Semplicemente, un differente orizzonte sportivo.
Una squadra per vincere il Mondiale per club
L’obiettivo di questo progetto è quasi dichiarato: competere con le grandi d’Europa. E per dimostrare di essere arrivati a quel livello c’è una strategia chiarissima. Anni fa, l’illusione della Cina era di far crescere il proprio livello sportivo in modo da poter avere una nazionale capace di competere per vincere i Mondiali. Ma era e resta un modello irrealizzabile o quasi, perché il tempo che serve per far crescere fino a quel punto il movimento è enorme e le garanzie di riuscirci praticamente nulle. Molto più facile è vincere un altro Mondiale: quello per le squadre di club. A questo punta la “Vision” del principe. L’orizzonte di cui sempre meno velatamente si parla è la partecipazione delle quattro grandi del campionato saudita alla Champions League della Uefa. Ma la porta per accreditarsi, e dimostrare di aver colmato la distanza siderale, fino a qualche mese fa, col calcio europeo, la offrirà il Mondiale per club del 2025 negli Stati Uniti, il primo allargato dalla Fifa a 32 squadre. Per l’Asia si qualificheranno le migliori 4 squadre per ranking: l’Al-Hilal di Neymar, l’Al-Nassr di Ronaldo e l’Al-Ittihad di Benzema sono in corsa nella Champions d’Asia e proveranno a staccare un biglietto per partecipare alla rassegna, una sorta di Superlega su scala mondiale. Certo, se poi fossero due squadre a strappare un pass si creerebbe il problema della proprietà comune – il famoso fondo Pif – ma verrebbe affrontato dalla Fifa solo in quel momento. Finché la questione riguarda la competizione interna, nulla osta. Ma esserci, quello è fondamentale, per bin Salman. Ci sono due anni per presentarsi a quell’appuntamento con una squadra capace di vincere il trofeo. E diventare campioni del mondo per club – di più: i primi vincitori di un Mondiale per club a 32 squadre – vorrebbe dire urlare al mondo la nuova dimensione del progetto saudita. La base su cui costruire il proprio credito, anche politico.
Il traguardo finale infatti è il Mondiale vero e proprio e qui la ragion di Stato avrebbe imposto una frenata strategica: non più la corsa all’edizione 2030, quella del centenario, lasciata al duello tra Europa (Spagna-Portogallo- Marocco) e Sudamerica (Uruguay- Argentina-Paraguay-Cile) perché la Fifa sarebbe preoccupata dalla sempre più stretta alleanza tra le confederazioni europea (Uefa) e sudamericana (Conmebol). Allentando la presa sul 2030, l’Arabia Saudita partirebbe favorita nella gara per il 2034. Ma c’è un altro progetto, di cui nessuno parla. Uno spettro all’orizzonte: una Superlega da giocare in Arabia con i migliori club europei e quelli arabi, a sfidarsi settimana dopo settimana, da pari a pari. Così la soddisfazione di aver battuto Messi al Mondiale in Qatar non resterebbe un isolato momento di purissimo piacere.