Corriere della Sera, 27 agosto 2023
Intervista a Françoise Antonini, la vedova del campione Rebellin:
«Dallo scorso 30 novembre la mia vita è distrutta. Sto cercando di rimetterne insieme i pezzi ma è difficile. Non posso più lavorare perché ho un’ansia forte e regolare, sono emotivamente e fisicamente esausta. Il futuro senza mio marito mi terrorizza: abbiamo sempre pensato e respirato in coppia, progettavamo di diventare “vecchietti” insieme…».
Da Montecarlo, dove abitava con il marito Davide Rebellin – il campione di ciclismo travolto e ucciso a 51 anni da un camion-pirata nove mesi fa in provincia di Vicenza, mentre si stava allenando dopo aver annunciato il ritiro dalle corse – Françoise Antonini riavvolge il filo dei ricordi a poche ore dall’ingresso in carcere di Wolfgang Rieke, l’autista tedesco che venerdì si è consegnato alle autorità italiane dando seguito alla richiesta di estradizione. Per tutto questo tempo, assistita dal consulente dello Studio3A Alessio Rossato e dall’avvocato Davide Picco, la vedova del ciclista ha seguito con il fiato sospeso l’evolversi delle indagini. «Quando ho saputo che quella persona era finalmente in carcere, ho subito parlato con Davide – sì, continuo a parlare con lui! – e gli ho detto: “Un passo verso la giustizia è stato fatto, tesoro mio”. Non è sufficiente, ovvio, ma già mi sento più in pace. Ora occorre che venga giudicato e condannato per il male che ha commesso uccidendo mio marito, scendendo dal suo camion per vederlo morire senza chiedere aiuto, come se Davide non avesse valore. E poi scappando in Germania, lasciandolo lì, schiacciato, in uno stato di orrore insopportabile».
Vorrebbe dirgli qualcosa?
«Parole di disprezzo o di odio? No, Davide non vorrebbe vedermi cadere così in basso. Vorrei solo che quell’uomo vedesse i miei occhi. Lì c’è tutta la storia mia e di mio marito».
In che modo vi eravate conosciuti?
«In bici, ovviamente. Uscivo ogni mattina e lui mi vedeva per strada. Un giorno è venuto, pedalando, al mio fianco e mi ha chiesto come mi chiamavo. Abbiamo parlato, ci siamo conosciuti ma nel cuore eravamo già innamorati. Davide era molto riservato ma quel giorno la sua bici deve averlo aiutato a superare la timidezza. In fondo la bicicletta era la sua vita, la sua migliore amica. Anche di notte lo sentivo muoversi come se corresse e quando si svegliava mi raccontava di aver sognato di gareggiare all’Amstel Gold Race, o alla Flèche Wallonne, o al Mondiale. Lui viveva in bicicletta ed è morto in bicicletta. E io credo che Davide, dove si trova ora, stia pedalando ancora, e ancora e ancora».
Un amore a prima vista, il vostro.
«Era un momento molto duro della sua vita: l’accusa (poi fu assolto, ndr) di doping, gli avvocati che chiedevano somme astronomiche per assumere la sua difesa, e poi il Fisco che lo accusava di non vivere realmente a Montecarlo... I due anni di quell’ingiusta sospensione furono per lui un calvario, eppure continuava ad allenarsi duramente, anche otto ore al giorno, come se avesse una gara importante da preparare. Seguirono sette anni di processi e di preoccupazioni che non hanno reso la nostra vita un lungo fiume calmo. Ma abbiamo affrontato ogni cosa mano nella mano, sostenendoci. Ultimamente le cose si stavano sistemando: progettavamo di organizzare dei corsi di ciclismo, di avere un bambino e di partire finalmente per quel viaggio di nozze che non avevamo fatto nel 2014, quando ci sposammo. Invece l’incidente ha cancellato tutto».
Cosa desidera, adesso?
«A parte che sia fatta giustizia per la sua morte? In seguito alle accuse di doping gli fu tolta la medaglia olimpica, e questo lo ferì profondamente: la considerava il suo trofeo più bello. Rinunciò a fare ricorso perché gli sarebbe costato intorno ai 30 mila euro, e lui non li aveva. Ma se quella medaglia venisse restituita “alla sua anima” adesso, anche se è troppo tardi, sono convinta gli permetterebbe di riposare in pace».