il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2023
Il doppiofondo Msi tra fascisti e Usa
Il problema della (giovane) Giorgia Meloni e dei suoi (più anziani) sostenitori non è tanto quello di riuscire a fare i conti con il fascismo storico, quanto con il neofascismo.
Con il regime di Mussolini e il fascismo fino al 1945 se la cavano affermando che sono capitoli chiusi, affidati alla riflessione storica, e che oggi hanno pienamente accettato il metodo democratico. Restano, in verità, inestirpabili nostalgie, persistono i riti dei saluti romani, resiste la fedeltà alla paccottiglia dei memorabilia mussoliniani, ma come fede privata, da esibire per lo più soltanto tra camerati in ricordo dei bei tempi andati. Con il neofascismo dell’Italia dopo il 1945, invece, i conti non riescono a farli. Perché non sanno e non vogliono tagliare le loro radici, che sono il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante e Pino Rauti, di cui Giorgia Meloni rivendica di essere figlia e orgogliosa erede della fiamma tricolore, in un partito che non perde occasione per “riaffermare con forza la continuità ideale della nostra comunità politica”.
La separazione impossibile. Il problema è che il Msi è inestricabilmente legato al resto della destra, a tutta la galassia nera dichiaratamente neofascista che opera soprattutto negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del Novecento: quelli durante i quali si è combattuta (anche) in Italia la “guerra non ortodossa” contro “il mostro comunista”, a colpi di attività eversive, colpi di Stato tentati e stragi riuscite. La destra di Meloni tenta oggi un’operazione impossibile: la separazione netta tra destra parlamentare (il Msi) e destra nazional-rivoluzionaria (i gruppi extraparlamentari, da Ordine nuovo e Avanguardia nazionale fino ai Nar). Un taglio addolcito solo dal negazionismo del “le stragi non sono fasciste”, ma che comunque divide due mondi: di qua la destra conservatrice e legalitaria, di là quella violenta e stragista. La storia ci dice che non è così: i confini tra quei due mondi sono frastagliati, variabili e incerti, con il Msi che formalmente scomunica i ribelli violenti, ma è sempre pronto a offrire rifugi e aprire ombrelli protettivi; e con i gruppi extraparlamentari che a parole disprezzano il “tradimento” del partito, pronti però a usarlo come salvagente, in una complessa dialettica tra rigetto ed entrismo. Pino Rauti, dopo aver fondato Ordine nuovo, alla vigilia della strage di piazza Fontana propone di “inserirsi dalla finestra nel sistema dal quale eravamo usciti dalla porta, per poter usufruire delle difese che il sistema offre attraverso il Parlamento… Necessità contingente dunque, assoluta e drammatica”. I due mondi sono dunque un unico mondo: i contrasti erano feroci, tra destra parlamentare e gruppi nazional-rivoluzionari, e ferocissimi all’interno dei gruppi extraparlamentari, con conflitti che arrivavano fino all’omicidio. Ma al di là di una sorta di spartizione dei ruoli, di gioco delle parti, tutti sapevano di essere combattenti di un’unica guerra, con una superiore unità d’intenti, che fa dire a chi quella storia l’ha vissuta, Vincenzo Vinciguerra, che “hanno marciato divisi, ma per colpire uniti. Non c’è una destra extraparlamentare e una destra parlamentare. No, c’è un’estrema destra, che si divide strumentalmente… Per quello che ho potuto constatare io, l’ispiratore di queste formazioni di estrema destra, quelli che sono sempre stati i loro punti di riferimento effettivi, sono sempre stati interni al Movimento sociale italiano”.
Il nodo indicibile. Spingendo la riflessione più in là, si arriva al nodo più problematico e irrisolto, anzi addirittura ancor oggi indicibile. È il problema dei rapporti della destra (sul piano interno) con le istituzioni statuali della Repubblica; e (sul piano geopolitico e internazionale) con gli Stati Uniti. Qui la riflessione diventa confronto, il confronto diventa ferita e le cicatrici si mostrano insuperabili. Tanto il Msi quanto la destra estrema vedevano negli Stati Uniti il nemico: gli Usa non solo erano stati determinanti per la sconfitta del fascismo e del nazismo, ma nel dopoguerra avevano imposto in Italia e in tutto l’Occidente l’impero masso-demo-pluto-giudaico. “La democrazia, ecco il nemico”, gridava il titolo di un libretto di Rauti ancora nel 1952. L’uguaglianza delle mediocrità uccide i valori delle élite figlie della cultura dell’Europa prima alla Rivoluzione francese. Eppure, quello che di giorno era il Nemico, nell’oscurità notturna della “guerra non ortodossa” diventava il baluardo contro il comunismo, l’alleato potente e segreto del combattimento invisibile, in Europa (punto di riferimento l’agenzia internazionale segreta Aginter Press) e in Italia (con uomini come il prefetto Federico Umberto D’Amato, uomo della Nato che “allevava” giovani come Stefano Delle Chiaie e Delfo Zorzi).
Così, all’interno, lo Stato democratico era il nemico da abbattere, esibendo la purezza anticapitalista dei soldati nazional-rivoluzionari. Da eliminare, o almeno (per il Msi) da spostare a destra, impedendo a ogni costo le “aperture a sinistra”. Così, di giorno, gli apparati dello Stato erano nemici da combattere; nella notte dei patti inconfessabili, erano alleati da usare, protettori da ringraziare, quando non padroni da servire. Vinceva l’ossessione anticomunista, pronta a tutto pur di fermare il grande nemico. In realtà, la lotta contro il “comunismo” diventava in Italia la guerra segreta contro la democrazia costituzionale, contro un Pci entrato ormai tutto dentro il gioco democratico, dopo aver tagliato, pur lentamente e con qualche contraddizione, il cordone ombelicale con l’Unione sovietica.
Nel fuoco di questo scontro, la destra italiana era il “polo escluso” (nella politica visibile) che diventava però il “polo occulto” (nella storia reale), protagonista della “guerra non ortodossa”: sotterraneo, ma presentissimo, attivissimo, produttore di effetti. E il Msi era, alfine, il collettore di una storia metà visibile e metà invisibile, quando dava ospitalità, e spesso anche un seggio parlamentare, a personaggi come Junio Valerio Borghese (il generale del tentato golpe del 1970), Vito Miceli (direttore del Sid, il servizio segreto militare, negli anni cruciali della strage di piazza Fontana e dei tentati golpe Borghese e Rosa dei venti), Giovanni De Lorenzo (il generale del Piano Solo del 1964), Mario Tedeschi (il senatore ritenuto da una sentenza di primo grado tra gli organizzatori della strage di Bologna), Sandro Saccucci (il deputato arrestato per il golpe Borghese), Gino Birindelli (senatore ed ex ammiraglio iscritto alla P2: come Miceli, Tedeschi, Saccucci e Giulio Caradonna, in un Msi formalmente anti-massonico).
Oggi la destra di Giorgia Meloni cerca di superare le contraddizioni che filtrano dalla sua storia e di chiudere il cerchio: infrangendo la grande menzogna su cui era costruito il rapporto della destra, a parole anticapitalista e antiamericana, con gli apparati dello Stato e con il Grande Alleato che vegliava sull’Occidente da difendere, a ogni costo, dal comunismo. Lo fa rivendicando pienamente i rapporti con le istituzioni e gli apparati statuali e diventando la più fedele alleata degli Usa, la più entusiasta sostenitrice della Nato.
Con qualche smagliatura in casa. Non tanto o non solo perché resiste a destra qualche critico degli Usa, della Nato e del modello americano, ma perché l’allineamento agli apparati dello Stato apre una finestra su un buco nero: come conciliare quell’allineamento con il fatto che questi apparati sono stati massonici, piduisti, in contatto con Cosa Nostra, coinvolti con l’eversione e lo stragismo? La chiusura del cerchio è compiuta sul piano internazionale. Sul piano interno il cammino (quando non si riduce al negazionismo) appare accidentato.