la Repubblica, 26 agosto 2023
Intervista a Marco Paolini. Parla del Vajont
Nessuna tv, a partire dalla Rai,ha accettato di trasmettere il riscritto racconto della tragedia, in occasione dell’anniversario del prossimo 9 ottobre. Nessuno sponsor, tantomeno istituzionale, ha accettato di investire per collegare in rete gli oltre cento teatri del Paese che quella sera metteranno in scena il peggior disastro industriale della nostra storia. Un no dietro l’altro. Si è mobilitata solo la gente: gratuitamente migliaia di persone trasformeranno il mio monologo in un coro di popolo su uso e valore dell’acqua. L’eccezione è Sergio Mattarella: salirà a Longarone non per restare nel passato, ma guardando al futuro. Il presidente non sale sulla diga del Vajont per retorica: sa che altri Vajont non sono possibili, bensì probabili e imminenti. Chiede a chi governa di imparare dagli errori di chi ha governato». Marco Paolini, ad Assisi per “gli Incontri della Fabbrica del mondo”, che riuniscono intellettuali, scienziati, economisti, artisti e attivisti a discutere le sfide poste da natura, cibo e sviluppo, non si è arreso e lavora da mesi al progetto Vajonts. «All’inglese con la esse – dice aRepubblica – al plurale, perché la nostra è una nazione cronicamente fondata sulla sequenza di disastri che si ripetono per sottovalutazione, indifferenza, sciatteria, opportunismi e interessi, politici ed economici». Da gennaio, clandestinamente e grazie al passaparola, ha già messo in scena Vajonts venticinque volte, davanti a pubblici che non sapevano cosa avrebbero visto, come nella Romagna devastata da alluvione e frane. «L’emozione – dice – resta violenta: i giovani non sanno cosa è stato il Vajont, ma capiscono che l’acqua è oggi il cuore della catastrofe annunciata che investe l’umanità. Sanno che ognuno dovrà tentare di sopravvivere a un proprio Vajont». La Rai,25 anni fa, trasmise la prima versione del “Racconto del Vajont”, registrando un primato da milioni di telespettatori. «Nel frattempo tutto è cambiato – dice Paolini – perché allora ci si doveva concentrare sulle colpe, mentre oggi vanno analizzati gli errori per evitare di ripeterli. Oscurare Vajonts conferma che la classe dirigente ancora si illude di poter gestire i disastri: prevenirli impone qualità che non possiede».
Il Vajont, dopo sentenze e risarcimenti, è nei libri di storia: perché imprigionare l’Italia davanti un simile shock?
«Perché l’imbarazzo istituzionale cresce, assieme alla tentazione di dimenticare. Trent’anni fa era un dovere rendere giustizia a vittime e sopravvissuti, chiarendo a tutti che l’esondazione della diga più alta del mondo non fu una calamità naturale. Oggi la crisi idrica e climatica impone di raccontare anche i Vajonts successivi, che hanno sconvolto ogni regione, di imparare quella lezione per impedire di piangere le prossime vittime».
A quali stragi, annunciate e ignorate, si riferisce?
«Gli elenchi non servono e nessuno può puntare il dito perché tutti siamo coinvolti nelle responsabilità.
Quando pensiamo a siccità, surriscaldamento e scioglimento dei ghiacci, ci percepiamo tutti come vittime. È una consolazione sterile.
Sessant’anni fa il Vajont fu un disastro industriale consumato in un Paese sicuro: oggi le zone franche non esistono più».
Cosa racconta il suo nuovo Vajont?
«Dalla visione di vittime e superstitisono passato a quella di progettisti, tecnici e scienziati. Il punto è che non accettiamo di correggere gli errori, specie se risultano evidenti. E va smontato il mito in base al quale, dopo interventi umani pesanti, bisogna lasciar fare alla natura per rimarginare le ferite. Questa ipocrisia demolisce la responsabilità».
Perché, dopo tanto tempo, adotta il Vajont quale simbolo globale dell’emergenza-acqua?
«L’acqua, misteriosamente, è la materia prima oggi meno considerata. Nessuno accetta di rispondere alla domanda sul valore di un metro cubo di acqua. Si quota tutto, non l’acqua: perché, mantenendo il modello attuale di sviluppo, non ce ne è più per tutti. Il Vajont è la conseguenza della corsa all’industrializzazione, gli incombenti Vajonts inseguono la condanna alla crescita post-industriale. In gioco, ancorauna volta, c’è la nostra vita».
Il desiderio comune di vivere senza sacrifici troppo dolorosi è una colpa?
«Il Vajont insegna che non è possibile vivere contrapponendo il cosa fare per salvare la specie umana ai costi per scongiurare la sua estinzione.
L’impegno oggi va rivolto a quanto costa non fare il necessario per mitigare gli effetti di errori non riconosciuti».
Ucraina, Fukushima, Panama, Africa, Alpi, Romagna: perché guerre, interessi, migrazioni e sfruttamento del territorio riducono l’acqua ad arma?
«Come accadde con la diga del Vajont, ci siamo consapevolmente spinti oltre il limite. La politica, a confronto con crisi, conflitti e calamità, mente. La promessa non è più un patto sacro, da onorare nella trasparenza e in tempi compatibili con la vita delle persone. I risarcimenti arrivano quando le vittime non ci sono più, la pace viene siglata quando i popoli sono sterminati, la terra si ripara quando è già morta. Anche la lentezza, quando si governa, è una cinica bugia che moltiplica l’ingiustizia».
Perché più accelerano surriscaldamento e migrazioni, piùcrescono negazionismo e razzismo?
«Va aperta una riflessione sul cedimento del potere alla paura, sul successo democratico di una storica sconfitta.
Quando Salvini, davanti ai ghiacciai alpini condannati a morte, si limita a osservare che in estate fa caldo, nessuno si alza davanti a lui per dirgli che mai ha fatto tanto caldo, che si fatica a respirare, che in quota manca l’acqua da bere.
Quando si teorizza il reato di solidarietà, non si alza un coro collettivo per ricordare che le migrazioni non sono un’emergenza, ma l’elemento fondativo della storia umana e delle civiltà. Il Vajont del potere è negare l’evidenza».
I giovani preoccupati per la salute della terra chiedono di smetterla di parlare e di cominciare a fare: discutere e ascoltare dibattiti serve solo a mettersi in pace con una conformista coscienza verde?
«Non sono i giovani a delegittimare scienza e cultura, sorprende la durezza contro chi sporca un monumento da parte di chi serenamente distrugge il pianeta. I fatti si nutrono di parole: i no sono vagiti, i sì sono giuramenti. La lezione del Vajont, penso anche al ritorno di molti animali selvatici, è ricominciare a vivere non contro, ma assieme alla natura».