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 2023  agosto 26 Sabato calendario

Sull’economia globale resta la grande incognita della frenata cinese


C’è un convitato di pietra a Jackson Hole, il simposio estivo dei banchieri centrali tra le montagne del Wyoming. È la Cina di Xi Jinping, che si sta avvitando nella più seria crisi economica della sua storia recente. Una crisi che ha nell’implosione dell’ipertrofica bolla immobiliare il fronte più caldo, ma che secondo un numero crescente di analisti rivela un male ancora più profondo, cioè l’esaurimento del “miracolo cinese”, il modello di crescita tutto investimenti, infrastrutture ed export che nell’ultimo trentennio ha permesso al Dragone il suo grande balzo in avanti. Si tratta di un problema enorme per il regime comunista, che pur avendo da tempo teorizzato la necessità di un cambio di paradigma di sviluppo all’insegna della produttività hi-tech e dei consumi interni non sembra sapere – o volere davvero – realizzarlo. Ma è un problema anche per il resto del pianeta, se è vero che negli ultimi anni proprio la Cina, fabbrica e poi grande mercato del mondo, è stata il principale traino della crescita globale.
Che cosa succederà se questo eccezionale propulsore verrà meno? Se il Dragone crescerà a un ritmo solo normale, o magari – prevede già qualcuno – si avvierà verso un lungo periodo di stagnazione, come è capitato al Giappone o ad altre potenze emergenti arrivate allo stesso livello (medio) di sviluppo? Qualche giorno fa, sulle colonne del New York Times, il premio Nobel Paul Krugman ha cominciato a mettere nero su bianco la questione. Con una risposta tutto sommato rassicurante: pur riconoscendo la gravità della frenata cinese – paragonabile per genesi e caratteristiche alla grande crisi che l’Occidente ha vissuto nel 2008 – l’economista scrive che l’impatto sull’economia americana dovrebbe essere marginale, vista la scarsa esposizione degli Stati Uniti verso il Dragone sia dal punto di vista finanziario che dell’export. Per quanto epocale, insomma, la crisi cinese dovrebbe fermarsi dentro ai confini nazionali.
Ma se quasi tutti gli analisti escludono un nuovo contagio finanziario “stile Lehman”, visto il sostanziale isolamento del mercato del debito in renminbi, l’impatto di lungo periodo di una stagnazione cinese rischia di essere ben più grave. Basti pensare alle tante multinazionali, da Apple in giù, o ai tanti Paesi, dalla Germania al Giappone agli emergenti d’Asia, per cui proprio la Cina, con il suo apparato industriale e la sua classe media affamata di benessere è diventata negli ultimi anni il primo mercato di esportazione. Non a caso in queste settimane, tra le economie europee, proprio quella tedesca è la più in difficoltà, l’unica ad essere entrata in recessione tecnica. Contribuendo di riflesso anche alla frenata italiana, nonostante il nostro Paese abbia scambi assai più limitati con la Cina.
Secondo le stime del Fondo monetario, tra il 2023 e il 2028 la Cina dovrebbe garantire da sola un quarto della crescita globale. E se questo apporto dovesse ridursi, come sembra, non si vedono al momento all’orizzonte Paesi in grado di garantire “storie di crescita” alternative altrettanto credibili e potenti. Non l’India, eterna incompiuta. Non il resto dell’Asia, le cui fortune economiche sono allacciate a filo doppio con quelle di Pechino.
E tornando a Jackson Hole, gli effetti di questa crisi cinese si stanno già materializzando di fronte ai banchieri centrali, rendendo ancora più difficile il compito di calibrare l’ultima fase della stretta anti-inflazione. Nel bene, perché la debolezza della domanda da Oriente contribuirà a raffreddare le quotazioni delle materie prime come petrolio e gas. E nel male, perché il brusco rallentamento del Dragone alimenta anche in Occidente il rischio di recessione, che fino a oggi sembravapossibile evitare. Una nuova grande incognita, per la “nuova normalità” in cui siamo entrati e che i banchieri centrali, gli economisti, i mercati e i governi stanno cercando di decifrare. Un’era in cui i tassi – come ha detto ieri Powell – dovrebbero restare alti a lungo, in cui l’inflazione potrebbe assestarsi su livelli più elevati rispetto al passato e in cui mentre gli imperativi politici della sicurezza ridisegnano le filiere produttive globali per contenere il “rischio Cina”, e magari frenarne l’ascesa tecnologico-militare, proprio la Cina smette di essere sinonimo di crescita. Rendendo il prossimo equilibrio ancora più difficile da immaginare.