Corriere della Sera, 26 agosto 2023
Luca Zaia racconta la sua vacanza del 1986
Fine estate, 1986. Sole a picco sul circuito di Jerez de la Frontera, estremo Sud della Spagna caliente. Una Citroën «Due Cavalli» bianca targata TV, Treviso, sfreccia a tutta velocità sulla pista deserta, lasciandosi dietro una nuvola di sabbia e polvere. All’interno, tre ragazzi appena diciottenni: ascoltano a palla La Isla Bonita di Madonna. Quello al volante – perché la macchina è della mamma – indossa una t-shirt («senza coccodrillo, perché per la Lacoste ci voleva un mutuo») e i jeans («con risvoltino»): si chiama Luca Zaia.
È una scena alla Sorrentino!
«Non c’erano guardie, l’impianto di F1 era presidiato solo per le gare. Con i miei amici ci siamo detti: andiamo a farci un giro. Siamo passati sotto agli spalti. E poi via. Quella libertà non l’ho più riprovata».
Un passo indietro. Al telefono con il presidente della Regione Veneto: nel suo ultimo libro, c’era un cenno al suo primo viaggio fuori dal paesino di campagna dove è nato, Bibàno di Godega di Sant’Urbano. Poche righe proprio. Ce ne siamo ricordati e lo abbiamo chiamato: quale occasione migliore, qui, per farcelo raccontare. Si è aperto un mondo.
Chi era Zaia a 18 anni?
«Mai uscito dal mio kibbuz, al massimo una vacanza in montagna. Tutte le estati papà mi prendeva in officina a lavorare: addetto alla pulizia delle chiavi inglesi. Mi dava 500 mila lire. Quell’anno, però, mi ero impuntato: metto via i soldi e parto».
Proprio in Spagna. Perché?
«Franco era caduto, sapevamo che il Paese stava vivendo un nuovo Rinascimento. Guardavamo le foto sui depliant dell’agenzia viaggi: la più vicina stava a Conegliano, 11 chilometri da casa. Non c’era internet; ma sognavamo. Marbella era la Ibiza di oggi. “Andiamoci in macchina”, dissi. Partimmo in tre».
«Oggi farebbe sorridere. Ma all’epoca per un biglietto aereo ci voleva uno stipendio. Passammo l’invernata a organizzare tutte le tappe, per filo e per segno. Comprammo una cartina stradale, non c’era neanche Google, eh! E passammo ore in strada a provare i consumi della Due Cavalli. Si poteva fare: da Bibàno a Marbella, 57 ore. Tutte su strade interne, l’autostrada era troppo cara».
Un’avventura.
«Partimmo alle 4 del mattino, era inizio settembre. Cominciava ad esserci già qualche foschia. Ma per noi era tutta una scoperta. Ci siamo fatti la Pianura Padana. Poi la Liguria. Abbiamo puntato su Genova per fare la costa: ho visto Imperia, Sanremo. Arrivammo col buio alla frontiera».
Che non aveva mai visto...
«Scendemmo nella terra di nessuno, tra le due sbarre. Avevamo una macchinetta fotografica. Ci mettemmo a fare le foto della baia di sotto, illuminatissima. Era Montecarlo».
E là?
«Riuscimmo a entrare al Casino e a dare il nostro contributo ai monegaschi (sorride). Poi andammo al “Pirata”, il famoso locale frequentato da Brigitte Bardot. Lo guardammo da fuori, incantati».
Di strada ne mancava.
«Abbiamo fatto la Costa Azzurra, poi la Camargue. Entrati in Spagna ci siamo detti: è fatta. Ma per l’Andalusia mancavano ancora mille chilometri. Passammo per la Sierra Nevada, dove ho visto animali che neanche so cosa fossero. E poi ci fu l’incontro con Barcellona, magico: da neo patentato mi trovai a guidare su vialoni a 5-6 corsie. Mi sembrava un flipper. Lì ci si ruppe pure la pompa dei freni: dormimmo in un parco pubblico a Castellon de La Plana».
Mai avuto paura?
«La provammo l’indomani a Malaga, dove dormimmo su una spiaggia isolata. Sentivamo persone che ci camminavano vicine. Alle 2 di notte rimontammo sulla Due Cavalli e finalmente arrivammo a Marbella».
Zaia nel circuito (deserto) di Jerez de la Frontera nel 1986
Sarà stata una visione.
«Le strade a quell’ora erano ancora piene. Al mio paese non avevo mai visto una cosa del genere. Ci siamo guardati e ci siamo detti: siamo nel posto giusto. A Marbella ci fermammo 22 giorni».
Ventidue!
«Già, pensi solo che tornai che la scuola era già iniziata».
Ma i soldi vi bastarono?
«Ci piazzammo in un ostello gestito da una signora con due figlie giovani. Si mangiava con 5 mila lire, con un milione ci facevi un mese alla grande (oggi basterebbero per tre giorni in Salento, ndr). In tasca i traveller’s cheque, qualcuno li ricorderà. La prima volta che li cambiai in banca, mi dettero una sporta con 6 milioni di pesetas».
Parentesi: ma i suoi due compagni di viaggio chi erano?
«Preferirei non citarli. Dovrei avvisarli, sono persone che ancora frequento. Non abbiamo fatto niente eh. Insomma, robe regolari, sembravamo usciti dalla prima comunione. Ma che poi vengono le paranoie...».
Neanche un amoretto?
«Ogni stagione ha i suoi frutti e anche io, da giovane adolescente, qualche fascino l’ho subito! Insomma, ci siamo divertiti. Ma non abbiamo fatto i Mondiali. Eravamo implumi (laurea in Scienze animali, qui capiamo..., ndr)».
Cosa ricorda comunque di quegli incontri?
«C’era gente che aveva delle storie assurde, partita da casa che si fermava lì mesi, anni. Che fumava. Io non ho mai fumato, neanche i miei amici, preciso. Ho scoperto un mondo che non credevo. I fancazzisti italiani, i figli dei fiori. Un residuo di hippismo. Ma c’erano un afflato, un’energia unici. I ragazzi spagnoli avevano la luce negli occhi. Si ballava e ricordo che non eri un figo se non bevevi il Bacardi Cola».
Le giornate come le passavate?
«Ci alzavamo tardi, colazione con un panino con il jamon serrano che ci faceva una vecchia nostalgica di Franco. Poi andavamo in spiaggia. Si tornava alle 15. Ma tante volte siamo andati in giro: Cordoba, Gibilterra, Siviglia. Con la Due Cavalli siamo finiti dentro gli allevamenti di tori. E poi c’erano i cavalli. Andai a vederli e a montarli. Feci pure alcune trattative folli e impossibili per provare a prenderli».
C’è un segreto che conserva di quella vacanza?«Un diario su cui appuntai ogni cosa, giorno per giorno: da una parte i dati tecnici, le tappe, i consumi, anche la cronaca di uno scippo. Ma dall’altra le sensazioni, le emozioni, i racconti. Credo che neanche i miei compagni ne sappiano nulla. Dentro c’è l’ingenuità di un ragazzo che vede il mondo per la prima volta, ma è una vera miniera. L’ho ripreso in mano, lo rimetterò a posto e forse lo pubblicherò».
Vuole lanciare un messaggio?
«Vorrei dire ai ragazzi di oggi di avere fame di conoscenza. Devono sapere che hanno strumenti digitali eccezionali, ma che non possono perdere il contatto con l’ambiente. Il telefono rischia di isolarli: quella volta fuori dal finestrino vissi un film di 57 ore; se avessi avuto il cellulare non avrei visto niente».
In Spagna è più tornato?
«Tantissime volte, è la mia seconda terra. Potrei fare da guida turistica. Amo il loro profondo senso di identità. E nel 2019 sono tornato anche davanti a quell’ostello. È stato un tuffo al cuore, sembrava che il tempo si fosse fermato».
E la Due Cavalli? Che fine ha fatto?
«C’è ancora. Mi ero stancato del bianco e l’ho fatta charleston, nera e bordeaux. Ce l’ha mio papà rialzata nel ponte dell’officina, la sta restaurando».