il Giornale, 26 agosto 2023
Biografia di Virginia Cowles
Il cimitero del giornalismo è pieno di croci abbandonate. Firme un tempo e per un momento famose, finiscono poi dimenticate, senza nemmeno un lettore che si ricordi di posarvi sopra un metaforico fiore. Fa parte del destino di una professione effimera come poche altre, sottoposta ai capricci delle mode e allo scorrere degli anni, e dove non sempre è la qualità a imporsi, ma le circostanze, il caso o la fortuna portano alla ribalta una mediocrità baciata da un successo immeritato e, come tale, non destinato a durare. E però, nei più rari casi di talenti veramente tali, il rimpianto è più cocente, così come il desiderio di porvi rimedio, con quei metaforici fiori che sono appunto un omaggio postumo, un riportare alla ribalta ciò che non meritava di rimanere nascosto. Queste considerazioni mi sono venute in mente leggendo In cerca di guai di Virginia Cowles (Neri Pozza, pagg. 480, euro 26; traduzione di Mariella Magrì, introduzione di Christina Lamb). Looking for trouble era il titolo originale, uscito nel 1941 e subito bestseller, e però da allora mai più ristampato. Quando lo scrisse, la sua autrice era una trentenne giornalista americana, che dalla guerra di Spagna alla cosiddetta battaglia d’Inghilterra non aveva fatto altro che coprire tutti i fronti bellici della Seconda guerra mondiale, scoppiata pochi anni prima: non se n’era perso uno, non si era mai tirata indietro, ma aveva anche avuto il tempo, nel periodo immediatamente precedente a quel conflitto, di andarsene in Germania come in Russia, in Italia come in Cecoslovacchia, ovunque incontrando gente, descrivendo situazioni e raccontando storie, una sorta quasi di check up al cuore malato di un’Europa che stava per suicidarsi per la seconda volta. La cosa più incredibile è da un lato la giovane età, ventisei anni quando iniziò la sua carriera di reporter, dall’altro il trampolino da cui tutto partì. Virginia Cowles era infatti una bostoniana di ottima famiglia che aveva cominciato scrivendo per Harper’s Bazaar, bibbia americana in materia. Pezzi di moda e di costume, niente politica, tanto meno società o economia in un’America uscita da Wall Street e ancora in piena depressione. La morte precoce, per appendicite, della madre, quando Virginia era appena ventiduenne, le lasciò una polizza assicurativa che le garantiva molto denaro da spendere. Così si era recata nelle redazioni dei giornali del Gruppo Hearst, uno dei colossi del settore, e si era proposta per una rubrica di viaggi e di corrispondenze dal mondo: le venivano pagati i pezzi, era in grado di pagarsi gli spostamenti... Dopo un routine iniziale, Virginia aveva frequentato un corso di affari esteri e di corrispondenze dal fronte e finalmente, nel 1937, quando di anni ne aveva intanto ventisette, aveva convinto il gruppo Hearst a farla andare in Spagna, dove la guerra civile aveva raggiunto il suo acme. Oltre a una tranquillità economica, la Cowles aveva dalla sua una fitta rete di amicizie internazionali, tipica di una wasp bostoniana e che comprendeva l’aristocrazia britannica come quella francese e italiana: questo le assicurava entrature in mondi altrimenti inaccessibili. A Londra c’erano i Duff Cooper, i Mitford, i Churchill, i Redesdale; in Italia i Del Drago, gli Assia e i Ruspoli, a Parigi una sfilata di baronesse e di principesse più o meno anziane e poi, più in generale, attaché d’ambassade e diplomatici di ogni ordine e grado, addetti militari, la fitta rete di corrispondenti di quotidiani e di agenzie di stampa sparsa per le varie capitali europee. Le succederà di fare il bagno a Capri con Galeazzo Caino e la sua corte, di prendere a Norimberga un tè alla corte di Hitler, di andare a cena da Chamberlain o di essere invitata nella tenuta di campagna di Loyd George... Rispetto alla sua amica Martha Ghellorn, c’era in Virginia meno indignazione morale e meno, come dire, dedizione alla causa, meno enfasi anche e però una maggior capacità di essere sempre nel posto giusto e nel momento giusto. Per fare solo un esempio, sarà a Parigi il giorno prima dell’ingresso delle truppe tedesche nella capitale francese: una Parigi spettrale, vuota, dove quasi tutti gli alberghi sono chiusi, dove nessuno sa che cosa accadrà. Nel libro la parte della guerra di Spagna è raccontata con brio e disinvoltura e ha il suo interesse anche nel fatto che la Cowles fu una delle poche a seguire il conflitto su entrambi i fronti, quello repubblicano e quello nazionalista. Se la memorialistica relativa a Madrid, all’Hotel Florida, all’Edificio Telefònica sulla Gran Vìa, agli anarchici e al circo internazionale della stampa, con Hemingway in testa, è ormai talmente noto da dare al suo resoconto un che di déjà vu, nonostante sia stato all’epoca uno dei primi a essere pubblicato, le sue corrispondenze restano esemplari per capacità descrittiva e una buona equanimità di giudizio. Le foto che ritraggono Virginia Cowles ci danno l’immagine di una ragazza carina in un’epoca in cui le cosiddette reporter di guerra erano ancora una rarità. Al suo esordio in Spagna si era presentata con degli abiti su misura, nei primi reportage dalla Russia aveva potuto rendersi conto che i tacchi alti non andavano d’accordo né con la neve né con il gelo. Ironicamente, scrisse che la sua prima esperienza moscovita era stata inizialmente presa da lei come una vacanza: «Avevo accettato volentieri l’opportunità di evadere dall’atmosfera tetra di Londra. Ero decisa a godermi il viaggio». Gli elementi di segretezza e di controllo lì presenti le diedero l’idea dell’apparato repressivo che c’era loro dietro: «Molto più sconcertante delle miserabili condizioni di vita era la tirannia che attanagliava la capitale. La Gpu era presente in ogni aspetto della vita della nazione». I contatti fra uno straniero e un russo erano praticamente inesistenti e la Cowles racconta come nella dacia appartenente all’ambasciata americana finissero per ritrovarsi «addetti militari che non avevano mai presenziato a una sola manovra dell’esercito sovietico, addetti navali che non avevano mai visto una corazzata sovietica, giornalisti che non avevano mai intervistato un uomo di Stato sovietico, ambasciatori che non avevano mai incontrato il governante sovietico. Tutti loro vivevano in Russia, eppure si vedevano regolarmente esclusi dalla vita russa. Acqua, acqua ovunque, e non una goccia da bere». Per quanto e sempre di più con il passare del tempo, la Seconda guerra mondiale venga raccontata come un unicum per dimensioni e responsabilità, all’epoca dei fatti l’impressione era diversa. Quando Cowles si recò sul fronte finlandese si rese conto che «la guerra sul fronte occidentale era remota quanto la Cina». Lì la guerra «significava bombe molotov e bombardieri sovietici». I russi, del resto, invadendo a loro volta la Polonia, avevano fatto capire in che conto tenessero le diplomazie occidentali e quanto queste ultime avessero fatto finta che la cosa non le riguardasse. Da americana, all’indomani della occupazione di Parigi, Virginia si trovò a constatare che «durante gli ultimi nove mesi l’America aveva assistito all’invasione di ben otto Paesi. La terra delle libertà aveva inviato moti di solidarietà, ma poco altro. In che modo influisce sui nostri interessi?. Ecco cosa si chiedeva l’America mentre in Europa scorreva il sangue». Ci sarebbe ancora voluto un anno e Pearl Harbour perché l’interesse si trasformasse in crociata. In cerca di guai è anche un sentito omaggio della Cowles agli inglesi e all’Inghilterra. Era il Paese che amava di più e nel quale scelse di restare al tempo dei bombardamenti tedeschi sull’isola, era il Paese in cui nel dopoguerra scelse di vivere, sposando, va da sé, un inglese, il giornalista e uomo politico Aidan Crewley. Scrisse ancora molto, ma In cerca di guai resta il perfetto esempio di uno stile misurato, dove l’ironia è saggiamente amministrata e chi scrive è sempre un passo indietro rispetto alla storia che racconta. E però mai fuori fuoco.