La Stampa, 26 agosto 2023
Garrone ha fatto un film sui migranti
Il regista Matteo Garrone è un distruttore di speranze e aspirazioni. Nel suo dramma criminale Gomorra, nel 2008, due giovani napoletani che aspirano a emulare i mafiosi visti nei film americani finiscono sparati da un gruppo di anziani e panzuti criminali con gli infradito. La sua versione di Pinocchio (2019) raccontava del bambino di legno che si univa a una carovana diretta verso la mitica terra dei balocchi, dove sarebbe stato trasformato in asino, messo in un circo e buttato nel mare. Ragazzi che osano sognare con gli occhi spalancati per finire male sono un tema persistente nell’opera del 54enne regista romano, ma per fortuna i due protagonisti adolescenti del suo ultimo progetto non conoscevano la sua filmografia prima di firmare il contratto.Io Capitano, che correrà per il Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia, si stacca da questa tradizione in tanti modi. La storia dell’odissea di due adolescenti senegalesi Seydou e Moussa dalle loro case a Dakar alle spiagge europee è il primo film in cui Garrone non racconta l’Italia dall’interno, ma la guarda attraverso gli occhi di chi la sceglie come destinazione sperando in una vita migliore.«Ho cercato di cambiare visuale» dice il regista in una video call da Roma, «l’opposto di quello che siamo abituati a vedere. Di solito la nostra cinepresa viene piantata in Europa, guardiamo le persone arrivare dal mare, chi vivo, chi morto. Volevo mostrare quella parte che dovremmo conoscere ma invece ignoriamo». (...) Garrone ammette che il rischio di girare un «dramma dei profughi» è finire per raccontare la storia di una categoria invece che di un individuo, dipingere le persone come vittime passive oppure elevarli a eroici superuomini. «Ero perfettamente consapevole del pericolo, e di quanto fosse delicato l’argomento, e mi ci sono voluti anni per elaborare un approccio» dice. «Il faro che mi ha guidato è stato essere sincero con me stesso e con la realtà, per quanto possibile, e di restare semplice. Ed è molto difficile restare semplice quando fai arte».Durante la visita a un campo profughi in Sicilia Garrone ha scoperto la storia di un quindicenne spinto a guidare una nave con 250 persone a bordo attraverso il Mediterraneo, senza nessuna esperienza di navigatore, una tattica che i trafficanti di uomini utilizzano da quando la giustizia italiana ha cominciato a usare le leggi antimafia per arrestate i capitani dei barconi all’arrivo in Europa.«Stavo entrando in una cultura che non è la mia, per girare un film che non doveva essere solo su di loro, ma insieme a loro» dice Garrone. «In ogni momento sul set avevo accanto a me persone che avevano davvero vissuto l’esperienza delle torture in Libia, attraversato a piedi il Sahara, che potevano raccontarmi la loro esperienza nel dettaglio».Come protagonista ha scelto Seydou Sarr, un 17enne timidissimo senza alcuna esperienza di attore, ma con una grande passione per la musica e il cinema. Il suo esuberante cugino Moussa è interpretato da Moustapha Fall, anche lui 17 anni al momento delle riprese, che aveva studiato recitazione a Dakar. La lingua però è stata un problema: la sceneggiatura è stata tradotta in francese e quindi raccontata a voce al cast in wolof, la lingua più diffusa nel Senegal. «Per giudicare la loro interpretazione potevo soltanto fare affidamento sul suono delle loro voci» dice Garrone.Già iniziare il racconto dalla repubblica dell’Africa occidentale era una scelta potenzialmente polemica. Il Senegal è diventato un Paese da cui si emigra invece di un Paese in cui si emigra soltanto negli ultimi anni, e lo stimolo principale di chi se ne va è più l’insicurezza economica che la guerra o la carestia.Io Capitano si apre con un’inquadratura di Seydou che guarda, educatamente annoiato, le sue sorelle minori provarsi parrucche arancione, farsi le treccine e dipingersi le unghie. Non è l’infelicità a spingere lui e suo cugino a desiderare di abbandonare la loro casa, ma il sogno dell’avventura. «L’Europa ci aspetta» giura Moussa a Seydou dopo che gli anziani li avvertono che il continente che sognano non è affatto come se lo immaginano. «I bianchi ci chiederanno l’autografo» dice.«Le migrazioni hanno motivazioni differenti: chi fugge dalla guerra, chi dalle conseguenze del cambiamento climatico, chi da una vita di assoluta miseria» dice Garrone. «Il tema del film è un altro genere di migrazione, legata alla demografia africana – il 70% dell’Africa sub-Sahariana ha meno di 30 anni – e alla globalizzazione». Mentre le migrazioni contemporanee dall’Africa verso l’Europa hanno tratti simili a quelle della generazione dei suoi nonni verso gli Stati Uniti, dice Garrone, esistono anche differenze cruciali. «A volte crediamo che la globalizzazione abbia avuto un impatto solo sul mondo occidentale. È un’idea sbagliata. Anche in Africa la gente ha accesso ai social, agli smartphone, alla televisione. Hanno a disposizione una finestra sempre spalancata sull’Europa ed è molto umano e naturale che vogliono vivere in un posto che gli appare più attraente. Vogliono viaggiare e scoprire il mondo, esattamente come noi. Vedono i loro coetanei viaggiare dalla Francia in Senegal, e non capiscono perché non possono fare lo stesso viaggio in direzione opposta. La storia di questo genere di migranti non viene raccontata spesso dal cinema». Seydou e Moussa avrebbero dovuto rimanere a casa? «Io non do risposte, racconto la storia del loro viaggio e cerco di fare vivere al pubblico la loro esperienza emotiva soggettiva. Alla fine, è compito degli spettatori trarre le conclusioni».L’abitudine di Garrone di distruggere le speranze dei suoi giovanissimi protagonisti non promette bene. Il prototipo del capitano al quale si ispira il film all’arrivo in Italia è finito in carcere per sei mesi. «Con le news che arrivano dall’Italia oggi, avrebbero potuto diventare 20 anni», aggiunge con un’amara risata. (...) In Io Capitano ci sono momenti del viaggio di Seydou e Moussa che ricorda molto l’escapismo fiabesco di Pinnocchio. E come il bambino di legno della fiaba di Carlo Collodi, Seydou non si spezza facilmente. «La giovinezza possiede l’arroganza di sfidare la vita, una qualità che Seydou e Moussa condividono con i ragazzi di Gomorra. Voglio però dare al pubblico l’occasione di respirare, per quanto la loro esperienza possa essere terrificante».