la Repubblica, 26 agosto 2023
Sul libro di Vannacci
Ho avuto finalmente modo di leggere buona parte del discusso libro del generale Vannacci restando diviso tra due ipotesi entrambe verosimili ma lontane. La prima è che si tratti di un’operazione studiata con cura nei tempi e nel metodo; l’autore che ha il nome in copertina può essere stato sorretto dal consiglio di altri colleghi. Un gruppo di lavoro animato da precise finalità in un momento considerato favorevole. Ci sono esponenti della nuova classe di governo che (non molti mesi fa) hanno addirittura reso omaggio ai funerei candelabri fabbricati dai prigionieri dei lager. Le famigerate SS naziste li ricevevano in dono dal criminale di guerra Heinrich Himmler come simbolo d’appartenenza. Nessuno avrebbe mai immaginato che si sarebbe arrivati ad un simile oltraggio. Anche se tra non molto conteremo un secolo da quando si consumarono quelle atrocità, sono ancora tra noi i testimoni dell’orrore, vittime di eventi la cui efferatezza avrebbe dovuto rappresentare un tabù invalicabile.Di questo quadro inquietante il libro potrebbe, per calcolo o per caso, essere parte. Sappiamo tutti che le idee del generale godono di notevole condivisione non solo negli ambienti militari. Un libro che le esponga è destinato ad un certo favore come i dati di vendita – anche al netto della curiosità – dimostrano.Bisogna solo avere il coraggio di scriverle certe cose. Ma il generale potrebbe avere qualcosa da aggiungere anche a proposito delle tante pericolose missioni alle quali ha partecipato.Vengo alla seconda ipotesi, quella dell’innocenza. È possibile che il generale Vannacci non fosse pienamente consapevole del reale peso – nell’Italia e nel mondo di oggi – di ciò che andava scrivendo; in altre parole, che abbia considerato normali certe affermazioni probabilmente abituali negli ambienti frequentati; che abbia ritenuto, non a torto, di offrire a una certa Italia spaventata dal presente e dal futuro un testo nel quale rispecchiarsi.Per esempio: «Le famiglie che oggi definiremmo numerose rappresentavano la normalità di un’Italia più povera, più rurale, più arretrata ma forse più felice di ora».Felice? Dell’arretratezza, della diffusa povertà, di diritti civili inesistenti, del divorzio da conquistare a colpi di pistola, del delitto d’onore, di un’assistenza sanitaria rudimentale?La nostalgia scolora la realtà, l’addolcisce, nutre il rimpianto.Il generale ricorda il profumo del pane appena sfornato, il suono delle campane domenicali. Nel popolare programma televisivo “Il musichiere” anche Mario Riva cantava: «Domenica è sempre domenica / Si sveglia la città con le campane /Al primo din-don del Gianicolo/ Sant’Angelo risponde din-don-dan». Era il 1960, 20 milioni di italiani – me compreso – si sintonizzavano su quel programma.Però è passato più di mezzo secolol’Italia non è più un paesello, con qualche affanno siamo nel G7 in un mondo che corre a velocità vertiginosa. Non esclusa la possibilità che corra verso il disastro ma non saremo comunque noi a tirare il freno lacrimando sul suono delle campane.Illaudator temporis acticome lo chiamavano i latini rischia di diventare una figurina patetica. È inutile polemizzare col presente tanto più se si considera la portata rivoluzionaria del passaggio in corso, dalla cultura della carta a quella digitale.«Perché dobbiamo annacquare quelle che sono le nostre più identitarie caratteristiche in una sorta di genoma mondiale?». La risposta è già nella domanda: perché il “genoma” (come lo chiama Vannacci) è mondiale e anche noi bene o male ne siamo parte.Nel romanzo Il mondo di ierilo scrittore Stefan Zweig ricorda con nostalgia l’impero austroungarico per i principi di tolleranza tra le diverse etnie che lo avevano caratterizzato.Nel poemetto De reditu suo lo scrittore Rutilio Namaziano, abbandonando Roma, rimpiange l’impero in decadenza (anche a causa del cristianesimo) con le accorate paroleFecisti patriam diversis gentibus unam di tanti popoli diversi avevi fatto una sola patria. Il rimpianto è un sentimento struggente tanto più se espresso ad elevato livello letterario.Un alto ufficiale con un intenso curriculum alle spalle però non dovrebbe abbandonarsi a queste debolezze. C’è un altro insegnamento più utile, quello stoico di Seneca che nelle sue Lettere morali a Lucilio mette in guardia dal pericolo del rimpianto.La vera sfida – scrive – è affrontare con coraggio e discernimento le difficoltà del presente, accettare ciò che la marcia dei tempi impone, vivere in armonia con i propri simili.Ci sono poi nel libro i giudizi oltraggiosi, quelli sugli omosessuali dai quali è partito lo scandalo: «Cari omosessuali, normali non siete, fatevene una ragione»; quelli sulla famiglia e sulle donne: «La bellezza del nucleo familiare tradizionale in cui uno dei genitori, generalmente la madre, si è essenzialmente presa cura della famiglia».Respingere il movimento di liberazione femminile equivale a criticare la lotta per l’abolizione della schiavitù.A beneficio dei malintenzionati preciso: l’equivalenza non è nel merito ma nella portata storica e sociale dei due movimenti. Ci sono aspetti dell’organizzazione collettiva che a un certo punto diventano intollerabili, per esempio le discriminazioni verso omosessuali e donne, residuo medievale.Il criterio di “normalità” è volubile cambia col tempo e nello spazio.Quello che a noi oggi pare “normale” non lo era cent’anni fa e non lo è oggi altrove. Una relatività che può alimentare la paura oppure la ricchezza del confronto (Levi-Strauss).È davvero a questa Italia spaventata e ingenua che il libro si rivolge? I fatti diranno qual è l’ipotesi più vicina al vero.