Corriere della Sera, 26 agosto 2023
Parla Capello
Fabio Capello: «Da giocatore finii la carriera con le ginocchia maciullate. Quando allenavo in Cina stavo in campo con
sei interpreti. Nel 2016 rifiutai
la panchina della Nazionale, non mi sentivo pronto. Non accetto che un mio calciatore tratti male il magazziniere»
F abio Capello, cosa significava, quando tu giocavi al calcio, quel numero 10 sulla maglietta?
«Il numero dieci era qualcuno che aveva qualcosa in più. Per visione di gioco, per doti tecniche, ma soprattutto per carisma. Si era numeri dieci sia in campo che nello spogliatoio. Qualcosa in più, non saprei come altro definirlo».
Platini, nell’intervista che ha aperto questa serie, distingue il dieci europeo, più regista, dal dieci, per lui nove e mezzo, sudamericano che è più funambolo. Sei d’accordo?
«Sì, io reputo di essere stato un dieci regista. Quando arrivai al Milan, dove c’era un grande dieci, Gianni Rivera, io presi, come era giusto, la maglia numero otto. Rivera era uno di quelli che sapeva far tutto, che negli ultimi trenta metri inventava. Io ho tratto ispirazione da Luis Suarez, il regista dell’Inter. Quando giocavo nella Spal, se potevo, lo andavo a vedere per carpirne i segreti, per copiare la sua visione del gioco, la sua capacità di leggere i movimenti dei compagni e depositare il pallone sui loro piedi nel momento giusto, nel modo giusto. Il mio dieci è un regista, parola che indica chi mette ordine, chi fornisce un senso alle cose che altrimenti sembrano frammenti».
Si può dire che in campo ogni giocatore ha un ruolo specifico: il portiere para, il difensore marca, il centravanti segna. L’unico che ha una visione d’insieme è il centrocampista, in particolare il numero dieci.
«Ai miei tempi era così. Il regista era il giocatore al quale veniva affidato il compito di dirigere l’orchestra. Aveva questa responsabilità. Puoi fare il solista se sei Maradona, Rivera, Pelè. Ma se fai il regista hai bisogno che tutti gli strumenti dell’orchestra funzionino. Tu devi dare i tempi giusti perché da quei solisti possa emergere un’armonia».
Ti sembra stia sparendo il numero dieci dal calcio moderno? E forse non solo dal calcio...
«Purtroppo non ce ne sono. Anche in Italia non ce ne sono. L’unico che mi pare abbia qualità da regista e da fantasista è Kevin De Bruyne del City. Quando arriva vicino all’area di rigore mostra capacità realizzativa e quando è dietro vede bene il gioco. Lui mi sembra il più completo. Anche se Guardiola recentemente lo ha spostato più avanti. Lobotka, che forse è uno dei pochi centrali che giocano in Italia, è uno che cuce. Lui però fa dei merletti, cose piccole. È bravo, sa posizionarsi, sa far girare la squadra, ma il suo spazio è piccolo. Le doti le ha, dovrebbe applicarsi a ricami più importanti, avere più ambizione, passare dal merletto alla tovaglia».
Chi è il numero dieci più forte che hai allenato?
«Albertini lo scelsi e lui era molto bravo a dare ordine ma non so dire se fosse un numero dieci come era Suarez. Uno che ha queste caratteristiche oggi è certamente Modric, lui è sempre dove deve stare, ha un senso della posizione e una intelligenza calcistica rare. È un giocatore da “un tocco in meno”. Ci sono centrocampisti pur bravi che indugiano in quel tocco in più che consente agli avversari di chiudere gli spazi. Invece quelli che vedono tutto il campo e prevedono le dinamiche del gioco ancor prima di ricevere il pallone, possono permettersi il “tocco in meno” che mette in difficoltà l’avversario. Sono doti naturali, talento puro».
Questa tua frase mi fa pensare che uno dei primi libri sul calcio usciti in Italia, una biografia di Rivera firmata da Oreste del Buono, si intitolava proprio «Un tocco in più»...
«Eh, ma quel tocco in più era la sua capacità di dribblare. Gianni sapeva superare l’uomo come pochi. Ce ne fossero, oggi. Ormai di dribbling se ne vedono davvero pochi. In quel caso il “tocco in più” era utile e aggiungeva. Serviva a saltare, non a rallentare».
A questo proposito: non ti sembra che oggi nel calcio si insegni poca tecnica e molta tattica, e che si guardi, in un ragazzo, più il fisico che il talento?
«Sono andato a vedere partite dei settori giovanili e ho sentito genitori entusiasti perché l’allenatore faceva fare ai loro figli tanta tattica. A dieci, dodici anni, gli fanno studiare gli schemi, assurdo. Io ho avuto la fortuna di avere due grandi maestri. G.B. Fabbri e Nils Liedholm. Tutti e due, per iniziare il riscaldamento, facevano fare tecnica. Singola, a due, a tre. Era quello il loro obiettivo, fare dei calciatori migliori, non solo disegnare schemi su una lavagna. Allora ai tecnici delle giovanili io direi solo una cosa: fate divertire questi ragazzi, insegnategli la tecnica, lasciateli liberi di mostrare talento e fantasia, non imprigionateli. Insegnare la tattica è facile, più difficile è correggere un movimento, una posizione del corpo, un modo di calciare. Al giorno d’oggi, con la velocità del gioco, la cosa più importante è avere la tecnica per controllare il pallone e passarlo velocemente. In Italia la palla arriva sempre saltellando, nel football inglese invece corre sul filo dell’erba e, per fare questo, chi la calcia deve avere la sicurezza di recapitarla al compagno, di trovare la giusta misura».
Cosa è stato per te lasciare il calcio giocato?
Vengo da Pieris, un paesino di mille anime che ha avuto 4 giocatori che hanno indossato la maglia azzurra
«Le mie ginocchia non mi consentivano di continuare. Allora se ti facevi un infortunio al menisco era un dramma, altro che artroscopia. Feci il primo a diciotto anni e il secondo a ventuno. Le ginocchia erano maciullate. Arrivai alla decisione di smettere per questo. Per fortuna, grazie a Gianni Rivera, passai subito a fare una cosa che mi piaceva molto: insegnare calcio ai ragazzi, quelli del Milan. Per questo non ho lasciato quel campo, quell’erba dove ho passato tanta parte della mia vita».
Sai che Bearzot, quando fu esonerato dal Prato, in serie C nel 1968, non lo disse in famiglia e la mattina usciva facendo finta di andare al campo?
«No, questa non la sapevo. Noi friulani siamo fatti così. Senza lavorare non ci sappiamo stare».
Com’è il calcio in mano agli arabi?
«Mah, è un’alluvione che sta ribaltando tutto, sotto tutti gli aspetti. Bisogna trovare degli argini, non so quali. Certo, finché mettono in gioco quelle disponibilità finanziarie, per i giocatori è difficile dire di no. Non bisogna fare retorica. Il problema del calciatore è che dietro l’angolo c’è l’infortunio che all’improvviso ti può accorciare la carriera o farla finire. E poi è un lavoro che ha un ciclo, finisce quando hai 35 anni. Quindi è comprensibile che i giocatori cerchino di guadagnare il più possibile quando sono nel pieno delle loro capacità. Il problema ora è del calcio europeo, perché stanno andando via giocatori importanti».
La tua ultima esperienza di allenatore è stata in Cina, Paese che sembrava dovesse divenire la nuova Bengodi del calcio.
«Sono andato perché me lo ha chiesto Walter Sabatini. Per la prima volta mia moglie non mi ha seguito. Tutte le sere a mezzanotte ci sentivamo, c’erano le lacrime, io non riesco a stare senza di lei. Insomma ho dato le dimissioni, non ce la facevo. C’era fermento lì, ma il pubblico non partecipava, diversamente da quello che sembra stia succedendo in Arabia. Io ho avuto la fortuna di lavorare in quattro Paesi, oltre l’Italia: Spagna, Russia, Inghilterra, Cina. Sono state esperienze decisive, per me. La difficoltà più grande in Cina era la lingua. Ti racconto questa: quando allenavo avevo sei interpreti per le lingue dei singoli giocatori. Persino due per l’italiano perché uno poteva tradurre solo me e l’altro lo staff; sai come funziona in Cina... Puoi immaginarti per dare una indicazione, passavano ore... E spesso, anche in Russia, io dicevo una frase di tre parole e la traduzione durava dieci minuti. Cosa potevo sapere di quello che arrivava ai calciatori?».
Parliamo di due tuoi gol. Il primo è quello del 1973 quando, a Wembley, decidesti la prima vittoria della nazionale italiana sul suolo inglese.
«È stata una gioia immensa. La soddisfazione di vedere la felicità dei nostri connazionali, ventimila operai e camerieri a Wembley, è stato incredibile. Nell’allenamento di rifinitura della sera prima, mentre stavamo tornando negli spogliatoi, quasi per scherzo, ho tirato il pallone in rete per poter dire che almeno una volta avevamo segnato a Wembley. Il giorno dopo l’ho rifatto, nella stessa porta. La soddisfazione per gli italiani che lavoravano lì è stata immensa. E questo è il mio ricordo».
Il secondo è un gol disperato, quello della bandiera nella sconfitta con la Polonia che costò l’eliminazione della nazionale italiana, tra le più forti mai schierate, ai mondiali in Germ-ania del 1974. Cosa diavolo successe?
«Quella era una squadra che veniva da undici risultati utili consecutivi, avevamo battuto Brasile, Inghilterra. Eravamo tra i favoriti. Ma quando a Coverciano diedero i numeri delle maglie qualche giocatore si infuriò dicendo “Ma allora la formazione è già decisa!” e lì iniziarono le divisioni. La cosa più grave è che si crearono dei gruppi: Chinaglia e Juliano con i giocatori delle squadre del centro sud contro quelli del centro nord. Sembra assurdo, ma fu così. Non eravamo squadra, lo eravamo stati fino a quel maledetto giorno poi ci siamo sfarinati. Tanto che durante la prima partita Chinaglia mandò a quel paese Valcareggi e il ritiro si trasformò in un inferno, eravamo separati in casa. La cosa più triste fu vedere i nostri tifosi, gli emigrati, che giustamente ci insultavano. Per loro tornare in fabbrica, il giorno dopo, sarebbe stato più difficile».
Un tuo collega mi ha raccontato che durante la partita con la Polonia ci fu un tentativo di combine, il pareggio avrebbe consentito a tutte e due le squadre di qualificarsi. Ne sai qualcosa?
«Io ne sentii parlare ma non ho un ricordo diretto. Sentii delle chiacchiere nello spogliatoio, ma nessuno mi ha mai coinvolto, tanto che io segnai quel gol. Voci tra noi sì, ne ho sentite, qualcuno che accennava a qualcosa. Ma in campo, come si è visto, non è successo nulla. Si può dire che c’è stato forse un tentativo di farlo. Un tentativo da parte di qualcuno, ma non so chi».
A proposito di nazionale, cosa pensi di questa storia di Mancini?
Mi manca Galbiati, con cui ho passato una vita. Poi Chinaglia, era diverso da come appariva in pubblico, e Scirea
«Penso una cosa semplice: doveva dare le dimissioni quando ha registrato una divisione su scelte importanti. Se a me, che ho avuto come secondo tutta la vita Italo Galbiati, mi avessero detto che lo sostituivano, me ne sarei andato subito. Semplice. Spalletti ora ha fatto una scelta coraggiosa, non c’è molto tempo. Il nostro campionato è iniziato una settimana dopo gli altri. Non capisco proprio perché. Spagna e Italia hanno lo stesso clima, allora perché noi, avendo ai primi di settembre due partite decisive della nazionale, dobbiamo fare una settimana in più di ferie?».
Ti hanno mai chiesto, in passato, di allenare la nazionale Italiana?
«Sì, me lo chiese Tavecchio durante la partita Italia-Spagna a Udine. Era il 2016. Io rifiutai, non mi sentivo pronto».
Poco dopo fummo eliminati dai mondiali. Hai la sensazione di una decadenza del calcio italiano?
«Noi abbiamo vissuto un tempo in cui tutti i migliori giocatori del mondo venivano in Italia. E se tu ti alleni con uno forte, impari di più, sei più stimolato, cresci. Dal top impari, ma ora? Si impara da quelli bravi, ma solo se hai voglia di imparare... Ho avuto la fortuna di allenare Totti, Del Piero, Baggio. Tre numeri dieci di enorme talento, che non avevano paura di imparare».
Ti ricordi il primo pallone della tua vita?
«Al mio paese, Pieris, non avevamo la parrocchia, ma il campo da calcio sì. E noi bambini passavamo giornate intere a correre dietro al pallone. Eravamo una comunità di mille anime. Ma quel paesino ha dato quattro giocatori alla nazionale italiana. Ed è stato il più piccolo comune italiano a giocare in serie C».
Mi parli di tuo padre?
«Era un maestro elementare, figlio di una famiglia poverissima. Nato nel 1915 in Ungheria, da ragazzo andò in seminario a Torino ma preferì diplomarsi per insegnare. È arrivata la guerra, arruolato ufficiale di artiglieria, al richiamo della Repubblica di Salò si rifiutò di rispondere, fu fatto prigioniero ed è stato deportato in cinque campi di concentramento, si è salvato per miracolo. È tornato a Pieris per insegnare. Aveva una grande passione per il calcio, specie per la tecnica, allenava, faceva il magazziniere, cercava di aiutare. Quando mio padre diceva una cosa era quella, aveva solo una parola, trasmetteva principi e valori. Quello che mi ha insegnato è il rispetto. Una delle cose che io non accettavo, dai giocatori delle mie squadre, era che trattassero male il magazziniere, il massaggiatore, i camerieri. Gli dicevo: “Vi farebbe piacere se questa persona che maltrattate fosse vostro fratello o vostro padre?”. Rispetto e gratitudine, questo mi ha insegnato mio padre. Riconoscenza che nutro per Silvio Berlusconi, che mi scelse con coraggio dopo Liedholm e mi ha fatto vivere un’esperienza bellissima. Quando lui mi richiamò, stavo al Real, io dissi ai dirigenti spagnoli che dovevo tornare a Milano, perché lo dovevo a Berlusconi».
Chi ti manca di più, tra quelli che se ne sono andati?
«Certamente Galbiati, col quale ho condiviso una vita. Chinaglia che era, nel privato, molto diverso dalla sua immagine pubblica. E Scirea, con lui e Zoff abbiamo passato tanto tempo. Ma di ricordi ne ho tanti. Armando Picchi, ad esempio, era un giovane allenatore che stava imparando, portava la sua esperienza di libero d’eccezione, uno che da dietro la difesa dirigeva la squadra. Io mi ricordo di lui, sul treno che portava la Juventus a Bologna per la partita, sdraiato nello scompartimento, devastato dal dolore che di lì a poco lo ucciderà».
Grazie Fabio.
«No, aspetta, c’è una domanda che devi farmi».
Volentieri, quale?
Non mi hanno mai chiamato a Coverciano a fare lezione agli allenatori Forse pensano che non sia in grado
«Sei mai stato chiamato a Coverciano per fare lezioni ai corsi di allenatore?».
Cioè in tutta la tua vita da tecnico non ti hanno mai chiamato? E perché?
«Mai. Il perché bisogna chiederlo a loro. Evidentemente pensano che non abbia un’esperienza sufficiente, che non sia in grado di tenere una lezione».