La Stampa, 25 agosto 2023
Bruno Segre risuscitato
Periferia di Torino, 24 agosto, 36 gradi alle 10 del mattino. Bruno Segre, avvocato, partigiano, monumento dell’antifascismo, 104 anni, apre la porta di casa al terzo piano di via Gaidano. Sfodera un’invidiabile ironia: «Venga, venga, che sono già resuscitato».
I giornali, sbagliando, lo hanno dato per morto due giorni fa. Dieci minuti di blackout in cui la notizia della sua presunta dipartita è rimbalzata sui siti dei principali quotidiani italiani e l’avevano letta tutti ma non lui: «Ero a letto a riposare, non godo di ottima salute ma sono ancor qui, pare, no?».
Tutta colpa di un’omonimia con il filosofo e storico Bruno Segre di Milano, figura centrale del dialogo tra i mondi ebraici e cristiani, morto (lui davvero) a 93 anni. Stesso nome, stesso cognome. Tutti hanno pensato al partigiano Elio, arruolato nella formazione Giustizia e libertà, che partecipò alla liberazione di Caraglio o – se preferite – all’avvocato che nel 1949 per primo difese un obiettore di coscienza 23 anni prima che l’istituto venisse riconosciuto dalla legge. E invece no.
Perchè il Segre torinese c’è ancora ed eccolo qui tra libri, riviste, pubblicazioni antiche, monete e francobolli. L’età avanza, la mente è lucida, la battuta è servita: «Quello che è successo ha anche i suoi privilegi, sa?», dice con un sorriso.
Avvocato Segre, vedo che l’ha presa con ironia…
«E cos’altro avrei dovuto fare?».
Me lo dica lei.
«Semplicemente così: ho potuto apprendere in anticipo il giudizio dei posteri sulla mia vita. Ho letto moltissime cose belle, ho tutti gli articoli stampati».
Si aspettava critiche?
«Non direi. In fondo ho sempre fatto del bene a tutti, non ho rimorsi. Ho combattuto per la giustizia e la libertà, ho sempre lavorato in senso progressista per garantire a tutti il diritto allo studio, alla felicità».
Come ha scoperto di essere morto solo sui giornali?
«È venuto su il custode dello stabile. Mi ha detto: qui chiamano tutti e chiedono ora, data e luogo dei suoi funerali».
Il primo che l’ha contattata?
«Il presidente dell’Anpi, Nino Boeti. Ha telefonato alla mia assistente che me lo ha passato: “Ah – mi ha detto – ma allora sei vivo?”. Pare di sì, gli ho risposto. E ci siamo fatti una risata. Posso però dire che per un’oretta buona mi hanno tormentato in tanti grazie a questo regalo».
Regalo?
«Come chiamerebbe lei un coccodrillo in anticipo? Sono passato dalle condoglianze ai complimenti».
Dica la verità: un po’ si è arrabbiato?
«Ma si figuri, l’errore capita. Sono stato un giornalista per tantissimi anni, ho diretto la rivista L’incontro per settant’ anni, ho lavorato all’Opinione con due maestri come De Benedetti e Torricelli, ho un altissimo rispetto del lavoro dei giornali. Qualcuno mi ha detto: chiamali tu in redazione per fare presente che si tratta di un errore grave».
E lei?
«Non avrei mai telefonato per lamentarmi. Certo mi è spiaciuto per Bruno Segre di Milano. Sa che lo conoscevo?».
Conosceva personalmente il suo omonimo morto per davvero?
«Accadde nella primavera del 1945, dopo la Liberazione. C’erano le elezioni ed entrambi eravamo giovani e impazienti. Tutti e due volevamo candidarci ma non potevano avere lo stesso nome e cognome. Io tenni il mio, lui il cognome della madre».
Risultato?
«Fummo entrambi sonoramente bocciati dall’elettorato».
Lei però ci riprovò…
«Ma dovetti aspettare quarant’anni fino al 1985 per diventare capogruppo del partito socialista a Torino».
Il quadro politico è radicalmente cambiato da allora. Vede, come altri, il rischio di una deriva reazionaria nel nostro Paese?
«Purtroppo il Paese non è ancora maturo tant’è che non è da escludere una certa involuzione in questo senso soprattutto a causa della cosiddetta opposizione».
Cosa c’entra l’opposizione?
«Non conosce la parola coalizione. Perché se Pd, Cinquestelle e Verdi fossero stati uniti, sarebbero loro al governo e non la Meloni».
Non le piace la premier?
«È una donna intelligente, le va riconosciuto».
Quindi i rischi?
«Al di là dei governi, in Italia, la Costituzione è la garanzia della democrazia. I primi articoli, intendo, sono come una lapide intoccabile. Al netto di qualche figura istituzionale che mi pare non brilli per intelligenza, credo che a nessuno interessi superare quel limite».
Cosa gradirebbe che questo governo facesse per il Paese?
«Io sarei lieto che conquiste come obiezione di coscienza divorzio, parità tra uomo e donna, rispetto dell’età, della salute, venissero mantenute».
In cantiere ci sono diverse proposte di modifica in tema di giustizia: abolizione di alcuni reati, stretta su intercettazioni, separazione delle carriere tra giudici e pm. Da avvocato cosa pensa?
«Che l’urgenza è un’altra».
Ovvero?
«Accorciare i tempi dei processi abolendo il grado di Appello. È iniquo che la pena si sconti 10 anni dopo i fatti: viene a cadere il valore deterrente della stessa. Poi sa io sono un supercritico di questa magistratura».
In che senso?
«Una parte dominata dalla logica delle correnti è stata inquinata in nome di cariche e ruoli, lo abbiamo visto. E per fare il magistrato, ci vogliono coscienza, prudenza, buonsenso, onestà, libertà e non protagonismo».
Torino come sta?
«È stanca, come me».
Città in declino?
«Con Milano il divario è diventato altissimo».
Su quale piano?
«Milano si amplia, progetta, ha sguardo largo. Qui si amministra l’ordinario. Mi aspettavo un’inversione, ma sono un po’ deluso dal sindaco Lo Russo che pure è una persona perbene. Speravo accogliesse le istanze della città con slancio, invece, per fare un esempio, la città non è più unita. C’è un forte scollamento tra centro e periferie. Potrei dire che era meglio Appendino».
Ce lo spiega?
«Aveva modi gentili, si mostrava più interessata. Insomma non aveva l’area della burocrate».
Vede un futuro complicato?
«Più che altro non vedo margini per una rivoluzione necessaria a risalire la china».
Cosa si aspetta per la sua vita?
«Serenità. E viva l’Italia».—