Corriere della Sera, 25 agosto 2023
Biografia di Salvo Sottile
Ha vissuto in una stazione, Salvo Sottile. «Mio nonno faceva il capostazione, a Cefalù: abitava lì con mia nonna. Per quasi un anno, da bambino, ho abitato da loro, perché i miei lavoravano. Dopo tanti trenini, finalmente, avevo la possibilità di giocare con dei treni veri, tanto che da grande sognavo di guidarli. Li osservavo per ore, li vedevo sparire dentro la galleria che c’era poco distante dalla stazione. E ricordo mio nonno che mi diceva: al di là, c’è l’Italia».
Anche suo papà era un giornalista.
«Lavorava al Giornale di Sicilia e per via del suo mestiere non c’era praticamente mai: si occupava di cronaca nera. Io non ho mai voluto lavorare per la carta stampata proprio perché, di fatto, mi aveva portato via mio padre. Però ho realizzato presto che mi piaceva raccontare storie, anche se per immagini».
Come ha iniziato?
«Mentre studiavo lavoravo anche in una libreria, mi davano 150 mila lire al mese. Con quei soldi mi sono comprato una delle prime telecamerine, usata. E ho iniziato a riprendere le cose che più mi colpivano della mia città, Palermo. In poco tempo mi ero fatto un mio giro: il poliziotto che mi raccontava cosa succedeva, il medico del pronto soccorso... e a 16 anni ho iniziato a propormi ad alcune tv locali».
Intraprendente.
«In realtà da bambino ero timidissimo, sono stato pure bullizzato: a scuola i miei compagni mi prendevano in giro perché ero sovrappeso e non mi permettevano di giocare assieme a loro. Ricordo un pomeriggio in cui sono rimasto solo tutto il tempo con una palla in mano: non trovavo nessuno che volesse giocare con me. La strada poi, per fortuna, mi ha svegliato».
Ha iniziato a fare il giornalista da giovanissimo.
«Una delle tv locali pre cui lavoravo mandava le immagini anche a Mediaset. Un giorno mi chiamarono per chiedermi se potessi andare a Roma per un colloquio. Cercavano un informatore dalla Sicilia: stava per nascere il Tg5».
Ci andò di corsa?
«In realtà all’inizio risposi che non potevo partire. Per arrotondare avevo iniziato a fare anche i filmini dei matrimoni e quella settimana ne avevo tre. Era un introito importante per me. Poi però mi decisi e andai: in ascensore, in quella che un tempo era stata la famosa villa di Pippo Baudo poi diventata un palazzo di Mediaset, beccai Mentana e Lamberto Sposini. Mentana mi disse: “Ma sei il ragazzetto che sta a Palermo? Sei troppo piccolo per fare questo lavoro”. Sposini invece, che era il buono della coppia, fu più clemente: “Vediamo dai, se succede qualcosa tu avvisaci”. Ecco, quell’anno accadde di tutto: l’eruzione dell’Etna, l’omicidio Lima, la strage di Capaci, la strage di via D’Amelio. In pochi mesi capitò in Sicilia quello che non era mai successo in dieci anni».
E lei era lì.
«Ma non avevo mai fatto collegamenti in diretta. Quando chiamai Mentana per digli della strage di Capaci, dopo che mi aveva avvisato un poliziotto, mi disse: dobbiamo fare una diretta, raccogli tutto il materiale che puoi e mando un inviato: prende un aereo e tra 2 ore è lì. In realtà non mandò nessuno e mi disse all’ultimo, per non farmi montare l’ansia, di mettermi davanti alla telecamera. Panico totale. Ma iniziammo a fare questa diretta infinita. Avevo 18 anni».
Cominciò così a fare il corrispondente dalla Sicilia per il Tg5.
«La Rai aveva venti persone a Palermo e venti a Catania. Io ero solo per tutta la regione, ogni tanto dovevo coprire anche la Calabria».
Ci sono mai stati episodi spiacevoli?
«Non l’ho mai detto, nemmeno a Mentana, se no mi avrebbe tirato via di lì. Ma dopo quattro o cinque anni che stavo a Palermo e seguivo la cronaca nera e la mafia, una sera tornai a casa e notai che c’era una cosa diversa dal solito: un lampione era spento. Il tempo di mettere la chiave nella serratura e mi sono sentito prendere da dietro da due persone che mi hanno poi menato come fabbri. Non ho fatto denuncia perché avevo paura che mi levassero tutto».
Resta un rammarico?
«Per me era troppo importante continuare a fare quello che stavo facendo. Non ero l’inviato che arrivava, faceva un servizio e se ne andava via. Io vivevo lì. Pressioni ne avevo subite. Ricordo anche la gente che mi fermava e mi diceva: ma perché non parli del turismo? Io non credevo a quel tipo di mentalità. Poi però Mentana mi trasferì a Roma. E per fortuna».
La sua voce ha avuto un ruolo nel renderla famoso?
«È una voce che odi o ami, però è riconoscibile, senza dubbio. Era il mio modo naturale di parlare, non c’era nulla di costruito quando ho iniziato. Senza contare che all’epoca ero un ragazzo che cercava di sembrare più grande della sua età: mi confrontavo con gente che aveva anche 30, 40 anni più di me, non mi prendevano sul serio. Quella diffidenza, comunque, l’ho spesso sperimentata nel corso degli anni».
In che senso?
«Quando sono andato via da Mediaset, ho avvertito che c’era un pregiudizio su di me, perché aver lavorato per Berlusconi significava per molti essergli amico».
Era così?
«L’avevo conosciuto al mio primo anno al Tg5, mi diede il suo numero e mi disse di chiamare se ne avessi avuto bisogno. Ovviamente non l’ho mai fatto. Era un uomo pieno di charme, cercava sempre di fare spogliatoio. Faceva sentire tutti importanti: dall’ultimo ragazzino di Palermo, che ero io, al direttore. In generale non rinnego gli anni di Mediaset, sono stati assolutamente formativi».
Ci potrebbe tornare?
«Con il progetto giusto perché no?».
Il grande successo arrivò con «Quarto grado», vero?
«Un programma incredibile. Prima conducevo il Tg5 ma a un certo punto Clemente Mimun decise di levare tutti gli uomini dalla conduzione delle 13. Quindi mi chiesero se volessi fare questo programma sperimentale, su Rete 4. Prima la cronaca era solo appannaggio di Federica Sciarelli, così io mi sono vestito il programma addosso: era una sorta di rappresentazione con una serie di parti in commedia. Di certo, era un modo diverso di fare cronaca. Sembrava dovessero chiudere il programma dopo tre puntate perché non andava benissimo, ma poi iniziò a crescere fino a fare il 17 per cento su Rete 4. Tuttora, per strada, le signore mi chiedono quando tornerò a condurlo».
Era però anche uno stile molto discusso, che indugiava sui crimini più efferati.
«È il motivo per cui a un certo punto ho detto basta: non volevo essere associato solo a dei delitti, non volevo essere “quello che parla di cronaca nera”. Così ho deciso di lasciare e fare altro, prendendomi dei rischi».
Stando ai palinsesti Rai, è stato premiato.
«In ogni progetto voglio portare il mio modo di raccontare storie, però. Nel tempo sono stato un severissimo giudice di me stesso, ma con le lezioni che mi ha dato la vita, ho imparato a non compatirmi più di tanto, a fare i miei sbagli e non rimproverarmi».
È in aperto contrasto con Franco Di Mare, da anni.
«Daria Bignardi mi aveva proposto di fare Mi manda Rai3 ed ero rimasto lì cinque anni, fino a quando non è arrivato lui alla direzione. Ci sta che un direttore di rete voglia cambiare, ma non mi tieni un conduttore a bagno maria fino all’ultimo giorno, quando sai che non potrà più trovare altro da fare. Con lui mi sono ritrovato senza un lavoro. E dire che insieme avevamo fatto l’Afghanistan, in ottimi rapporti. Poi, chissà perché, ha deciso di dichiararmi guerra, come fosse una sua ossessione. Pretendeva anche che non andassi ospite da nessuno, chiamava tutti dicendo di non invitarmi. L’unico a non farsi intimidire fu Guardì».
E arrivò il capitolo dei «Fatti Vostri».
«Un programma difficile da condurre, con molti registri, che insieme abbiamo cercato di modernizzare, penso riuscendoci. Devo moltissimo a Guardì. Tutto sommato, alla fine, Di Mare mi ha fatto un favore».
Altre persone a cui dire grazie?
«Mentana. E Sposini, che è stato per me una sorta di padre: i primi tempi, quando ero a Roma, andavo a dormire a casa sua. Mi aveva preso sotto la sua ala. Mentana era più il preside, ti interrogava. Prima di mandarmi in Afghanistan, dove sono stato poi per due mesi, mi chiese di dirgli i confini. Lui per me resta il più bravo in assoluto: ammiravo la sua capacità di non stancarsi e la sua velocità di pensiero, fuori dal comune. Mi ha dato un’opportunità quando non lo avrebbe fatto nessuno. Negli anni abbiamo anche discusso, ma ogni volta che lo vedo rimane in me una sorta di soggezione, anche oggi».
Con Sciarelli vi siete poi parlati?
«Quando sono arrivato in Rai ero quello della concorrenza. All’inizio, quindi, c’era grande freddezza. Poi le ho mandato una pianta e lei mi ha detto grazie: abbiamo siglato questa pace botanica. Comunque la trovo bravissima».
Sogni per il futuro?
«Il mio sogno era tornare a fare un programma con un racconto diverso, alternativo sul mondo che ci circonda. La nuova Rai mi permette di farlo e ne sono grato. In futuro mi piacerebbe anche esplorare la divulgazione: c’è tanta voglia di conoscere e informarsi».
Si sente bello?
«Con il mio corpo ho sempre avuto un rapporto conflittuale. Non mi piace rivedermi. Però credo sia un bene, la normalità è un valore».
Quali sono i suoi obiettivi?
«Sono diventato papà abbastanza giovane, poi mi sono separato e con Sarah (Varetto, ndr) siamo in ottimi rapporti. Oggi per me, quello che conta, è esserci sempre per i miei figli».