Corriere della Sera, 25 agosto 2023
A 50 anni dalla prima sindrome di Stoccolma
«Non fategli del male» urlò Kristin mentre portavano via Olofsson
«Non fategli del male! Non hanno fatto nulla!», urlò Kristin Enmark, uno dei quattro ostaggi, agli agenti che avevano appena fatto irruzione nel caveau e immobilizzato i due sequestratori. Mentre li portavano via, uno di loro, Clark Olofsson, si girò verso la giovane donna e sorridendo le disse: «Ci rivedremo».
Era la sera del 28 agosto 1973. Iniziata cinque giorni prima, la più lunga rapina in banca con presa d’ostaggi mai vissuta dalla capitale della placida Svezia si concludeva senza sangue, ma con un risvolto che sarebbe diventato oggetto di studio della scienza medica e avrebbe acquisito celebrità mondiale, entrando nel vocabolario e nell’immaginario dell’intero pianeta.
Sono passati cinquant’anni, da quando il dottor Nils Bejerot, il criminologo e psichiatra che aveva assistito la polizia durante il sequestro, parlò per primo di «comportamento inquietante» da parte di Kristin Enmark, 23 anni all’epoca, verso uno dei banditi. Coniò anche la definizione «sindrome di Norrmalmstorg», dal nome della piazza dov’era la sede della Svenska Kreditbanken presa d’assalto. Ma all’estero, la presunta simpatia dell’ostaggio per il carceriere diventò subito la «sindrome di Stoccolma», e così sarebbe rimasta, fonte inesauribile di speculazioni e fantasie.
Che poi Olofsson non era neppure quello che aveva attaccato la banca. «La festa incomincia», aveva gridato Jan-Erik Olsson, detto Janne, entrando mitra alla mano nella filiale affollata alle 10.00 del 23 agosto. Trentadue anni, da poco rilasciato dalla prigione di Kalmar, Olsson era un oscuro delinquente con precedenti per furto e rapina a mano armata. Apparve però dall’inizio molto deciso: ferì alla mano un agente che tentava di entrare, rilasciò quasi subito una cinquantina di persone. Ma costrinse a restare 4 impiegati: oltre a Enmark, Birgitta Lundblad, Elisabeth Oldgren e Sven Säfström, tutti giovani tra 21 e 30 anni. Poi pose le sue richieste: 3 milioni di corone, un’auto, munizioni, giubbotti antiproiettile, due mitra, ma soprattutto la liberazione di Olofsson dal carcere di Kalmar, dove scontava 6 anni per rapina.
Sebbene avesse appena 26 anni, questi era già popolare in Svezia, una specie di Vallanzasca scandinavo con all’attivo rapine in banca ed evasioni. Un mito per Olsson, che ne chiese il rilascio personalmente al telefono al premier Olof Palme. Sperando che lo convincesse a liberare gli ostaggi e consegnarsi, Palme ordinò che Olofsson fosse portato nella banca. Quello che il premier e i suoi collaboratori non sapevano era che i due compari avessero pianificato tutto insieme nei mesi in cui erano detenuti a Kalmar. Una volta che il complice fu sul posto, i due infatti si barricarono insieme agli ostaggi nel caveau. Per giorni, non successe nulla. La polizia svedese sembrava paralizzata. Negli ostaggi cresceva la percezione di essere stati abbandonati. Il sospetto si era fatto certezza, racconterà Enmark, quando due poliziotti erano riusciti a chiudere dall’esterno la porta del caveau. Tutti dentro, senza acqua né cibo.
Palme, direttamente coinvolto nella trattativa, parlò più volte al telefono con Olsson e una volta con Enmark. Il premier fu irremovibile: lo Stato non scende a patti con i criminali, anche a costo delle vostre vite. Lei lo accusò di «mercanteggiare» con la vita umana: «Ci lasci andare, non ho paura di questi uomini. Ci proteggono», lo supplicò Enmark. L’ipotesi che gli ostaggi avessero perso il senso della realtà cominciò ad essere evocata dagli psicologi mobilitati dalle autorità.
Il dramma si chiuse quando, accortisi che la polizia stava mandando un gas (probabilmente Anticimex, usato nella caccia ai topi) dentro il caveau, i banditi si arresero. Cos’era successo nelle lunghe ore trascorse al buio nella camera blindata? Quando la mattina dopo gli investigatori e Nils Bejerot si presentarono nell’ospedale dov’era stata ricoverata Enmark per interrogarla, la prima domanda fu: «Lei è innamorata di Clark Olofsson?». Tutti gli ostaggi, lei compresa, misero a verbale di non aver simpatizzato con i loro carcerieri.
Ma Enmark, bersaglio di lettere minacciose, lasciò la banca e studiò per diventare psicoterapeuta. Rimase in contatto epistolare per anni con Olofsson, che continuò la sua carriera criminale. Nel 2015 Enmark ha pubblicato un libro dal titolo: Così diventai la sindrome di Stoccolma.
Che nel frattempo compie mezzo secolo e vive di vita propria. Espressione pop, spesso evocata. A sproposito. O a proposito, come nel 1974 nel caso del rapimento dell’ereditiera americana Patty Hearst o del film di Sidney Lumet Quel pomeriggio di un giorno da cani. E anche molto criticata: la giornalista australiana Jess Hill l’ha definita un mito, inventato per screditare e far tacere donne che sono vittime.