Corriere della Sera, 25 agosto 2023
Il segnale dello zar
«Si confà forse allo zar se lo si percuote su una guancia porgere l’altra? E come potrà poi egli governare il suo reame se tollera su di sé un disonore?».
Vladimir Putin ha spesso dichiarato di mettere in cima alle sue letture preferite la raccolta delle frasi attribuite a Ivan il Terribile, il sanguinario primo zar di tutte le Russie, della cui riabilitazione si è fatto promotore.
Nel 2017 inaugurò di persona la prima statua del sovrano passato alla storia come un despota spietato, che né in epoca zarista né in epoca sovietica aveva mai ricevuto un tale omaggio.
«Prigozhin sottovalutava quanto fosse importante per il suo ex amico mandare un segnale a tutti i potenziali ribelli: ragazzi, non vi azzardate a pensare di poter fare questo e poi restare in vita. Al capo della Wagner sono mancati i fondamentali della nostra storia». Abbas Gallyamov è di solito portato alle più fosche previsioni sul destino della Russia di oggi. Questa volta anche l’uomo che dopo aver scritto i discorsi del primo Putin è diventato uno dei suoi critici più accaniti, al punto di essere bollato come «agente straniero» ed essere costretto ad emigrare, fa alcune distinzioni. «La morte del capo della Wagner rafforza le posizioni del presidente nell’ambiente delle élite intellettuali, economiche e militari, con un chiaro effetto deterrente. Ma le indebolisce agli occhi della società. Per l’opinione pubblica invece non è importante solo il risultato. Conta anche il lato estetico del processo. Un assassinio di nascosto, sotto il velo della notte, non rende onore al Principe».
Il giorno dopo
Il giorno dopo non c’è alcun cordoglio nazionale. Le autorità tacciono, i personaggi che si muovono nella prima cerchia del Cremlino usano la cautela. L’unico politico di un certo livello che si è sentito in obbligo di rompere il silenzio è stato finora Sergey Mironov, leader e capogruppo alla Duma del partito «Russia Giusta-Per la Patria», considerato il megafono politico di Prigozhin. Anche lui non versa lacrime per quello che appena un anno fa definiva come il suo migliore amico, limitandosi a dire che il suo ultimo regalo, il martello con cui i wagneriani giustiziavano i traditori, gli ricorderà sempre «che bisogna lottare». Sono più eloquenti i silenzi, e gli omaggi di circostanza, già posizionati in fondo ai telegiornali della sera.
«Andare avanti»
Poco importa quale versione dei fatti sarà stabilita dall’inchiesta giudiziaria dietro alla quale si riparano tutti. Il messaggio dello Zar è arrivato a destinazione. Dopo aver agitato le acque nei mesi scorsi, appoggiando Prigozhin nelle sue richieste di Armageddon sull’Ucraina, anche Tsargrad, sito e galassia mediatica dell’ultranazionalismo più spinto, sponsorizzato dall’oligarca di Dio Konstantin Malofeev, si dimostra allineato e coperto. «La politica interna russa tributerà onori agli eroi caduti e rimarrà esattamente uguale a come era quando erano vivi... Pur addolorati per questa perdita, bisogna andare avanti. I nostri principali nemici, gli anglosassoni, tempo fa inventarono questa formula di addio per le loro navi affondate: “Il re ne ha tante”. Era un modo per far capire che nonostante le perdite, l’essenziale è intatto. Ora siamo noi che dobbiamo imparare a dire: “Putin ne ha tanti”».
La linea ufficiale
L’editoriale del Moskovskij Komsomolets, il quotidiano più filogovernativo, rappresenta la risposta ufficiale russa alla domanda se la morte di Prigozhin indebolisca o piuttosto rafforzi Putin. «L’Occidente punterà il dito contro il Cremlino, e non sarà mai convinto della versione dei fatti che verrà data dalle nostre autorità. Ma chi a Mosca adesso s’interessa dell’opinione occidentale? Al presidente importa solo del pubblico russo ed esso, sia l’aristocrazia politica che i semplici cittadini, sicuramente saprà trarre le conclusioni giuste dall’accaduto. Prigozhin doveva la sua fantastica ascesa esclusivamente alla verticale del potere. A un certo punto si è sopravvalutato, dimenticando come il nostro sistema si basa soltanto su una rigida unicità di comando, e sull’accettazione universale di chi sta al vertice della piramide».
La fine di questa storia era nota ai media russi fin dal giorno in cui Putin, commentando l’insurrezione di Prigozhin, usò la definizione di «traditori». Anche Aleksandr Baunov, professore del Carnegie Center, concorda sul fatto che quell’aggettivo non poteva restare senza conseguenze. «Altrimenti il sistema di potere avrebbe rischiato l’ingovernabilità. E più il tempo passava, più le apparizioni del capo del Wagner rischiavano di esporne l’attuale fiacchezza». Ma non è un caso che le uniche voci che fanno notare come la fine di Prigozhin contenga anche alcune criticità, giungano da osservatori ormai esuli dal loro Paese d’origine. Certe cose sono visibili soltanto quando si è ben lontani dalla Russia. E da Putin.