Corriere della Sera, 24 agosto 2023
Perché siamo un Paese maschilista
L’aggressione di gruppo di Palermo è orribile da ricordare ma semplice da definire, moralmente e giuridicamente. Eppure è accaduta nello stesso Paese in cui l’assassino di Noemi Durini, una ragazza di sedici anni, è già libero di uscire dal carcere. Altro che la castrazione chimica invocata dal vicepremier, o le violenze in cella auspicate dai social.
Che non sono il modo in cui un Paese civile punisce e previene il male. Occorrono pene severe e certe. Ma non bastano. Se violenze come quelle di Palermo possono accadere, e i protagonisti possono ragionevolmente pensare di farla franca, è perché in Italia succedono nello stesso tempo cose antiche, e cose nuove. Contro cui dobbiamo attrezzarci, per difendere non soltanto le donne, ma la nostra stessa dignità.
Le cose antiche: soltanto in un Paese profondamente maschilista si dà per scontato che la vittima sia consenziente, come ha detto uno dei ragazzi del branco, neppure il più insensibile. Soltanto in un Paese profondamente maschilista la colpa di una violenza ricade sulla vittima, la «provocatrice» che «se l’è cercata». Soltanto in un Paese profondamente maschilista la grande maggioranza delle donne violentate non sporge denuncia, perché sa che molto spesso non avrà giustizia, e l’unica ad aver qualcosa da perdere sarà lei. Certo, la violenza è un caso estremo. Dietro il quale però c’è una mentalità, c’è una cultura deviata. Dietro la violenza ci sono tante piccole soperchierie, tanti torti subìti e inflitti, tanti ricatti sugli ambienti di lavoro, tante molestie e ingiustizie che moltissime donne italiane si portano dietro come un bagaglio segreto, nel migliore dei casi come arma che le rende più forti, a volte come vergogna che avvelena la vita.
Un Paese in cui il regime fascista, oggi molto riabilitato quando non rimpianto, codificò il matrimonio riparatore – chi violentava una donna e la sposava vedeva estinto il reato, finché in piena età repubblicana una giovane donna di Alcamo, Franca Viola, rifiutò di sposare il suo stupratore dicendo «l’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce» – e il delitto d’onore: chi trovava non solo la moglie, ma pure la figlia o la sorella con un altro uomo e la uccideva a volte non finiva neppure in galera. Proprio come il minorenne stupratore di Palermo, già libero. Proprio come Lucio Marzo, l’assassino di Noemi Durini.
Difendere le donne ovviamente non è una «cosa di sinistra», definibile ideologicamente. Anzi, toccherebbe a un governo di destra, oltretutto guidato da una donna, rendere più dure e soprattutto più inflessibili le pene per stupratori e assassini: certezza della pena, che in uno Stato democratico non è solo punizione ma pure rieducazione. Anche al rispetto delle donne. Perché accanto alle cose antiche in Italia accadono cose nuove. I social a volte diventano istigazioni a delinquere. Le immagini della violenza sono considerate un trofeo. E le vittime delle vendette o delle vanterie digitali sono quasi sempre le donne.
Ma non è tutto qui. Il branco di Palermo è facile da condannare. Ci sono altri casi più difficili da giudicare. Non sono aggressioni fisiche, ma altre forme di violenza. Da sempre nella seduzione può esistere una componente di forza: una volontà che si impone su un’altra. Ma il confine tra seduzione e violenza si è fatto sempre più labile, per molti motivi: nuovi stili di vita, assunzione di alcol e di droghe, educazione sentimentale affidata ai siti pornografici, un’idea del sesso meccanica, slegata non soltanto dalla sfera sentimentale ma anche da quella emotiva.
Questo non significa che il legislatore e il giudice debbano essere meno severi. Significa il contrario: occorre distinguere in modo più netto possibile tra seduzione e violenza. Se la donna è sotto l’effetto di alcol o droghe, se ci può essere anche il minimo dubbio sul suo consenso, occorre fermarsi. E chi non sa fermarsi va condannato.
Si è fatta molta ironia sulla legge spagnola definita con la formula «solo sì è sì». In effetti era un legge tecnicamente mal scritta: equiparando l’abuso – ad esempio un ricatto sul lavoro – all’aggressione, ha finito per alleggerire le pene degli stupratori. Ma il principio era e resta giusto: il consenso deve essere chiaro. Non necessariamente esplicitato con le parole, ma comunque senza possibilità di fraintendimenti. Nel dubbio occorre fermarsi. Se poi la donna non ha il pieno controllo di sé, questo è un ulteriore motivo per rispettarla, non per approfittarsi di lei.
Si comincia dalle piccole cose, per arrivare alle grandi. I ragazzi di Palermo si sono comportati in modo dichiaratamente animalesco; ma non erano incapaci di intendere e di volere. Definirli mostri aiuta ad assolvere noi stessi, non a capire loro, a impedire che ad altre ragazze sia inflitto quello che ha subìto la ragazza di Palermo, a evitare che altri giovani commettano crimini del genere. «Homo sum; nihil humani a me alienum puto». Siamo esseri umani; tutto quello che è umano ci riguarda, e ci chiama in causa. La molestia di oggi può diventare domani una violenza o un delitto. E quando una donna subisce qualsiasi forma di ingiustizia, nessuno di noi può chiamarsi fuori e dire: io non c’entro.