la Repubblica, 24 agosto 2023
Quando i talenti d’America erano “rossi”
Nel film Oppenheimer, appena uscito in Italia, il partito comunista americano ha una rilevanza minore rispetto al libro omonimo da cui è stato tratto, scritto da Kai Bird e Martin J. Sherwin ed edito da Garzanti. Christopher Nolan dedica poco spazio a spiegare cosa, degli ideali comunisti, attirasse lo scienziato e l’amante Jean Tatlock, iscritta al partito, tuttavia il film lascia intuire quanto fosse influente il mondo contro cui il 9 febbraio 1950 sferrò il proprio attacco il senatore Joseph McCarthy, tradendo i principi cardine di libertà di opinione ed espressione su cui è fondata la promessa americana.
Con le sue liste nere e le audizioni della Commissione per le Attività antiamericane, il maccartismo rappresenta una pagina buia nella storia del Paese, ma è necessario contestualizzare lared scare cominciando dal discorso sulla cortina di ferro pronunciato in America da Winston Churchill, il quale ammoniva che il comunismo «potrebbe travolgerci tutti». Quando McCarthy sconvolse il Paese affermando «ho qui una lista di 205 membri del partito comunista che lavorano al dipartimento di Stato, influenzandone la politica» è necessario ricordare che era avvenuta da poco la rivoluzione cinese, Mao era un mito per milioni di persone, come anche Stalin, la guerra in Corea era in pieno svolgimento e l’Unione Sovietica si era dotata della bomba atomica. Sino al1944 il partito comunista americano contava 80 mila iscritti. In America insomma si aveva la percezione che il comunismo potesse prevalere nel mondo intero e la paura era alimentata anche da numerosi casi di spionaggio: la decodificazione del progetto Venoma rivelò ben 349 spie operative nel Paese, generando arresti celebri, come quelli di Harry Gold, Alger Hiss e dei coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, condannati a morte al termine di un processo che spaccò l’opinione pubblica. Solo molti anni dopo fu dimostrato che Julius trafugava informazioni di massima segretezza. Il clima di contrapposizione divenne più netto con il cambio di amministrazione da Truman a Eisenhower e McCarthy, non potendo dimostrare la sua incredibile denuncia, diminuì il numero degli infiltrati a 87 e poi a 51, prima di volgere la propria attenzione al mondo della cultura. Il maccartismo durò fortunatamente solo pochi anni, lasciando però dietro di sé una scia di tradimenti e delazioni che causarono arresti, la perdita di lavoro per migliaia di persone, esili forzati e persino suicidi. Il mondo liberal si oppose con forza e nello spettacolo furono Humphrey Bogart, Lauren Bacall e John Huston a capeggiare manifestazioni di solidarietà per gli “Hollywood Ten” (i dieci sceneggiatori finiti nella lista nera), mentre la Commissione arrestava e minacciava con brutalità: Jerome Robbins fece i nomi di alcuni colleghi quando gli venne fatto capire che avrebbero reso pubblica la sua omosessualità. Il Paese dimostrò tuttavia di avere anticorpi robusti e dopo l’inchiesta televisiva di Edward Murrow, in cui vennero messi in luce i metodi barbari e l’inconsistenza di molte accuse del senatore, la parola fine venne pronunciata dall’avvocato dell’esercito Joseph Welch che in diretta televisiva chiese a McCarthy «non le è rimasta un po’ di decenza?».
Nel mondo dello spettacolo furono numerosi gli artisti che si dichiararono comunisti, a volte iscrivendosi al partito, ma è improprio attribuire la stessa accezione che intendiamo in Europa: non si può ad esempio considerare comunista Walter Bernstein, a cui è ispirato il filmIl prestanome, o Martin Ritt, ottimo regista di quel film e di altre pellicole dall’evidente impegno politico e sociale, come Norma Rae.
Non lo era certo Sidney Lumet, che diede a Bernstein l’opportunità di lavorare con uno pseudonimo, e neanche Jules Dassin, Lillian Hellman, Lena Horne, John Garfield e Lee Grant: il sincero anelito di giustizia sociale di tutti costoro è da ascrivere al mondo del liberalismo statunitense e non aveva nulla a che fare, solo per fare un esempio, con la dittatura del proletariato. Persino Dalton Trumbo, il più ribelle e radicale degli Hollywood Ten, aveva un approccio in primo luogo romantico e la vicinanza all’ideologia non lo portava a rinunciare a valori prettamente americani quali l’individualismo e la difesa della libertà, come si evince anche dai grandi film che hanno raccontato metaforicamente quegli anni: Mezzogiorno di fuoco eL’invasione degli ultracorpi.
Forse l’eccezione più significativa tra i cineasti è rappresentata da Herbert Biberman, che andò in carcere per essersi rifiutato di fare i nomi e poi diresse spettacoli teatrali ispirati al realismo socialista sovietico. Più articolata la questione in campo letterario: sposò apertamente l’ideologia John Dos Passos, ma poi la ripudiò, definendola «liberticida». Non molto diverso l’itinerario di Upton Sinclair, mentre i libri di John Steinbeck, tacciati allora di comunismo, appaiono oggi segnati da un afflato nei confronti delle classi sociali meno abbienti che non ha nulla di rivoluzionario. Potremmo al massimo parlare di socialismo democratico, eppure allora fu sufficiente perché lo scrittore venisse messo sotto osservazione dall’Fbi insieme a W. H. Auden, Thomas Wolfe, Dashiell Hammett, Edmund Wilson, Robert Sherwood, Theodore Dreiser, William Faulkner, Robert Lowell, Archibald MacLeish, John O’Hara, Carl Sandburg, Thornton Wilder, Nelson Algren, Tennessee Williams e persino Truman Capote ed Ernest Hemingway.
Nessuno di loro è mai stato realmente comunista, mentre il maccartismo si intrecciava con il razzismo: Sinclair Lewis fu tenuto sotto osservazione dopo la pubblicazione di Sangue reale, definito da Edgar Hoover «propaganda per convincere i bianchi che i negri sono ugual» così come Pearl S. Buck per il pamphlet sulla giustizia razzialeFreedom for All.Era un punto di riferimento di tutto questo mondo Victor Navasky, direttore di The Nation, il più prestigioso tra i giornali della sinistra americana e autore di
Naming Names. Si deve soprattutto alla sua testimonianza il racconto del momento più drammatico di quegli anni, che vide contrapposti due protagonisti della vita culturale, legati sino a quel momento da profonda amicizia: Elia Kazan, iscritto al partito tra il 1934 e il 1936, il quale confermò nove nomi alla Commissione e poi acquistò una pagina sul Los Angeles Times per incoraggiare a combattere il comunismo con ogni mezzo. E Arthur Miller, che era stato solo un simpatizzante e si rifiutò di fare i nomi rischiando il carcere. Il regista scrisse al drammaturgo che non capiva il senso di «difendere un segreto che non ritengo giusto e gente di cui sono già stati fatti i nomi o presto saranno fatti da qualcun altro… Io odio i comunisti da molti anni e non credo sia giusto rinunciare alla carriera per difenderli. Sono pronto a rinunciarci per difendere qualcosa in cui credo, certamente non questo». Miller rispose: «Non preoccuparti per quello che penserò: qualunque cosa farai andrà bene per me, perché so che il tuo cuore è nel posto giusto». Le scelte opposte diedero vita a due opere che esorcizzano metaforicamente i rispettivi comportamenti: Fronte del porto, che si conclude con l’esortazione a fare i nomi dei sindacalisti corrotti, eIl crogiuolo, in cui il protagonista è perseguitato per le proprie idee all’epoca di una caccia alle streghe.
Nonostante le dichiarazioni, il rapporto tra Kazan e Miller si spezzò e solo in tarda età l’amicizia ebbe il sopravvento su tutto: i due si riconciliarono,commossi, dopo ilcrollo del muro di Berlino.