Avvenire, 24 agosto 2023
Carceri, le telefonate che possono salvare vite
Alleviare la sofferenza di chi vive dietro le sbarre e limitare il numero dei suicidi con due telefonate in più al mese. Venti minuti di conversazione che si aggiungono ai quaranta già consentiti. È una modifica del regolamento penitenziario appena accennata ma già finita nel vortice delle polemiche con gli addetti ai lavori che si dividono nel giudizio sulla reale efficacia del provvedimento la cui entrata in vigore dovrebbe essere deliberata a breve dal Consiglio dei ministri.
«Sono scintille preziose nel ravvedimento di chi sta espiando la pena, soprattutto in un momento delicato per le ragioni che conosciamo» aveva spiegato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio la vigilia di Ferragosto, dopo la visita al cercare delle Vallette di Torino a seguito della morte di due detenute, una, giovanissima, che si è impiccata alle grate della cella, l’altra, mamma di due bambini, che si è lasciata morire di fame e di sete per disperazione. Due telefonate in più al mese, dunque, da quattro a sei, è la proposta del Guardasigilli condivisa con il nuovo capo del Dap, Giovanni Russo. Ma tre associazioni impegnate nell’assistenza e nel sostegno ai reclusi, “Ristretti Orizzonti”, “Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia” e “Associazione Sbarre di Zucchero” (nata un anno fa a Verona in seguito al suicidio in cella di una giovane detenuta, Donatela Hodo) in una lettera indirizzata allo stesso Nordio, al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e a Papa Francesco bocciano la proposta ritenendola «inconsistente». «Abbiamo tirato un sospiro di sollievo a leggere che il ministro Nordio si era reso conto dell’importanza di dare una svolta a tutta la negatività che sta travolgendo le carceri puntando proprio in particolare sull’aumento delle telefonate – scrivono le associazioni – ma cosa cambierebbe con due miserabili telefonate in più al mese di dieci minuti l’una in quelle vite di solitudine, isolamento e lontananza dalle loro famiglie?».
Di parere diverso è don David Maria Riboldi, cappellano della Casa circondariale di Busto Arsizio, in provincia di Varese, che proprio sulla possibilità di allargare i contatti dei carcerati con i familiari mettendo a disposizione di ognuno un cellulare, aveva fatto una battaglia nell’agosto dell’anno scorso, insieme con Rita Bernardini di “Nessuno tocchi Caino” e altri, inviando anche un video-appello all’allora ministro della Giustizia, Marta Cartabia: “Una telefonata può salvare una vita” era il motto della campagna. «Sono contento – dice don Riboldi – perché almeno così si attenua la solitudine dei reclusi, il 30% dei quali è straniero, e si allontana la possibilità di farsi del male, al primo impatto sembra una buona risposta. Così si rafforzano, o si ricuciono, i legami familiari, pensiamo a chi ha tre, quattro figli: come fa con quattro chiamate al mese a seguirli tutti? Non solo – aggiunge il sacerdote – in questo modo il detenuto si può sentire addosso la responsabilità di essere genitore e marito: è un’opportunità per rimettersi in gioco quando si uscirà dal carcere». Ma la questione è alquanto complessa. «Attenzione a non fare dei passi indietro – precisa il cappellano – perché in alcuni penitenziari, grazie alla sensibilità dei direttori, di telefonate se ne fanno di più: a Busto Arsizio, per esempio, sono 12 al mese e a Bollate, carcere modello, addirittura una al giorno». E la questione sicurezza? «Non siamo più negli anni ’90 quando da una telefonata in carcere partivano gli ordini dei boss – spiega don David – su 57mila detenuti quanti Matteo Messina Denaro ci sono? Gli atti criminosi passano invece dai cellulari che entrano clandestinamente, ma se c’è il “telefono ufficiale” e chi lo usa sa di essere controllato, è un vantaggio anche per chi deve sorvegliare». «Qui si fa del male anche ai familiari, che non hanno nessuna responsabilità, anzi hanno bisogno di essere incoraggiati e aiutati – sostengono invece le tre associazioni a proposito delle due chiamate in più al mese –. E ricordiamoci che ci sono Paesi in cui le famiglie indigenti vengono sostenute dalle istituzioni. In Italia, le persone detenute si pagano le telefonate. Qualcuno non venga a dirci che non si possono creare differenze tra chi può pagarne di più e chi non può, si tratta piuttosto di aiutare e sostenere chi non ha possibilità, tanto più che se queste persone avessero come prescrive la legge un lavoro, questo problema non esisterebbe». I firmatari della lettera ricordano poi il principio costituzionale secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E per questo chiedono al ministro «un gesto di cambiamento vero» perché «i nostri governanti sembrano ignorare che la pena detentiva consiste nella privazione della libertà e non in altre “torture” che possono spingere anche al suicidio, come la mortificazione degli affetti». «Favorire i rapporti coi parenti, con telefonate è comunque un passo da fare – sostiene Daniela De Robert, componente del Collegio dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale – e non va dimenticato che durante l’emergenza Covid le telefonate quotidiane hanno tranquillizzato detenuti e famiglie: non è facile per i parenti andare a trovare i loro cari dietro le sbarre, perché spesso vivono lontano se non all’estero». E la riforma del sistema? «Va fatta ma i tempi sono lunghi, mentre intervenire sulle misure amministrative è più veloce, come abbiamo verificato nella commissione Ruotolo sull’innovazione del sistema penitenziario, con direttive trasformate in circolari – dice De Robert -, l’importante è non togliere, non sottrarre, e una videochiamata (che adesso è sostitutiva di un colloquio, ndr), magari con whatsapp o Skype alleggerisce senz’altro le tensioni e fa bene a tutti: ha un grande significato per un detenuto, vedere in faccia moglie, figli, genitori. E costa meno di una trasferta».
Ma, anche su questo fronte, don Riboldi è già “operativo”: «Con i contributi che riesco ad ottenere – spiega – pago ogni anno come cappellano circa 4.500 euro per le ricariche telefoniche dei detenuti che me lo chiedono e per l’acquisto dei doccia-schiuma che l’amministrazione penitenziaria non può pagare»