ItaliaOggi, 24 agosto 2023
Giornalisti ombelicali
Tanti, tanti anni fa, Giovannino Guareschi lanciò sul «Candido» una rubrica rimasta famosa: «Visto da destra, visto da sinistra». Si riferiva, e si giudicava, lo stesso fatto secondo i due opposti punti di vista. E sempre a proposito di «opposti punti di vista» si possono citare quello dei giornalisti e quello dei politici della maggioranza. Naturalmente i due gruppi non si parlano (salvo che nelle interviste) ma cionondimeno i giornalisti in cuor loro parlano quotidianamente con gli statisti: gli spiegano quello che non hanno capito; gli dicono in che cosa sbagliano; gli danno consigli per il futuro e gli predicono disastri se non ascoltano i loro consigli. Nel loro foro interno, gli danno del tu.
I grandi politici raramente hanno il tempo di leggere i giornali. E del resto, come tutti gli uomini d’azione, disprezzano coloro che intessono serti di concetti, esibiscono merletti di parole, sfornano mini trattati di politologia. Sono soltanto mosche cocchiere. Soprattutto perché si vede spesso che non conoscono gran che il problema su cui pontificano.
Domanda: i giornalisti si rendono conto che non parlano al governo e al Parlamento, ma soltanto ai loro lettori? E se se ne rendono conto, perché non si esprimono con minore risolutezza, evitando ogni atteggiamento docente o sanzionatorio? Quanto meno per non rendersi ridicoli?
In materia di politica c’è una differenza fondamentale fra chi riflette e chi agisce. Chi riflette, di solito prende in considerazione un singolo problema e lo esamina secondo i (pochi) dati in suo possesso. L’uomo di Stato invece di dati deve considerarne fin troppi; molti elementi di giudizio, anche cocciutamente contraddittori; molte persone di cui tenere conto fra alleati, tecnici, amici, nemici, ed intere categorie di cittadini.
Quando un politico interviene nella realtà, facendo cadere una tessera del domino, le ripercussioni sono pressoché sempre maggiori di quelle preventivate. È raro che si possa migliorare qualcosa senza peggiorarne un’altra. E i titolari di quest’altra cosa (sostenuti dall’opposizione) strillano come se li stessero scannando.
Così si spiega la longevità di certi problemi, ad esempio l’Alitalia. Io lo avrei risolto in una mattinata, negandole anche un centesimo ma, poiché nessun governo l’ha fatto, ovviamente il problema non si poteva risolvere in quel modo. I motivi ancora oggi mi sfuggono, ma devono ben esistere, se hanno convinto i governi più diversi.
I giornalisti semplificano la politica per raccontarla ai lettori ma essa ne esce deformata. È una materia troppo complessa per sintetizzarla in poche righe.
Quando Beppe Grillo ha sostenuto che «uno vale uno», ha dimostrato di non avere capito niente di politica. La semplificazione con cui il cittadino vede l’attività governativa è più fuorviante di quanto non si pensi. Ad esempio la politica della lesina è vista da tutti come la prova della malvagità del governo, mentre i regali a pioggia fanno felici tutti. I regali danneggiano profondamente la nazione? Che importa: ci metterà rimedio il prossimo governo.
In questo contesto il giornalismo ha spesso l’aria di un’astratta predicazione, e la democrazia vera, vista da vicino, fa spavento. Il popolo non è in grado di distinguere il buon governo dal cattivo. Proprio per questo, per Voltaire, colui che può realizzare il migliore governo è «il despota illuminato». E Voltaire aveva ragione.
Ha avuto il solo torto di non lasciarci il sistema per rintracciarlo e soprattutto la garanzia che quel genio benefico un giorno non si sarebbe trasformato in un tiranno sanguinario. Lo sappiamo, la democrazia fa schifo ma l’alternativa può essere soltanto peggiore.
Per quanto mi riguarda, a proposito dello Stato, stabilirei questo principio fondamentale: «Più cose fa, più ne sbaglia». Per conseguenza è migliore quello che ne fa poche. Non dubito che i politici leggeranno queste mie righe e ne terranno il dovuto conto.