Avvenire, 23 agosto 2023
Le "lezioni americane" di Calvino
Com’è noto le Lezioni americane dovevano essere sei, ma la sesta Calvino non poté scriverla. L’ictus lo fermò quando la partenza per il Massachusetts non era lontana, il 6 settembre del 1985. Si chiamarono così, racconta la moglie Esther, perché Citati andando a trovare Calvino, nell’estate del 1984, gliene chiedeva notizia nominandole in quel modo.
L’università Harvard di Cambridge l’aveva invitato nel giugno dell’anno precedente e le lezioni, le prestigiose “Norton Lectures”, avrebbero dovuto tenersi nell’anno accademico 1985-86. Altra curiosità è che possediamo brani dell’eventuale settima o ottava lezione (sul tema “cominciare e finire”) alle quali forse avrebbe ugualmente lavorato, per “eccedenza di materiale”. Della sesta abbiamo soltanto il titolo: “Consistency”. Tema, o uno dei temi, di “Consistency” riferisce sempre la moglie dello scrittore, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita – doveva essere Bartleby, lo scrivano di Melville, l’inconsistente per eccellenza.
Non sappiamo come Calvino sarebbe entrato nel discorso, sappiamo però dalle lezioni portate a termine che esaminando un tema, esaminava anche il suo contrario: il peso con la leggerezza, la lentezza insieme alla rapidità. Le Lezioni americane diventarono la summa del pensiero critico di Calvino, e proposte per il nuovo millennio, con la selezionatissima piccola antologia che contengono, che saranno valide ancora a lungo. Calvino non si curò di raccogliere i suoi saggi che nel 1980, in Una pietra sopra, ma la scrittura saggistica accompagnò quella di finzione fin dagli esordi. Seguì, dopo quattro anni, Collezione di sabbia, una raccolta di scritti occasionali che resta tra le sue opere meno note e più vitali. Da annoverare tra i maggiori libri dell’ultimo quindicennio – gli anni inaugurati dalle Città invisibili -, considerando che a questa ultima fase della carriera appartengono le prove più deboli (Cosmicomiche, Il castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore). Orientamento è quello che cercava Calvino nel mondo delle cose e in quello della scrittura, confessando quasi a ogni tentativo – a ogni libro – di non trovarlo.
Certo non come avrebbe voluto. Ha provato molti strumenti e molte scienze, umane o meno. Arrivò un momento in cui tutta l’attrezzeria pareva insufficiente, e questo stancò le sue forze ma non lo decise a qualche forma di resa. Provò a gettarsi sulle sole parole, che interpretassero o meno la realtà.
Degli ultimi anni è il tornare spesso sul discorso del restringere lo scrivere a questione privata tra scrittore e lettore, lasciando il mondo delle cose, che evidentemente non vuol partecipare, libero di non farlo. Già da tempo aveva iniziato a misurare con maggior cura (”Esattezza” è il titolo della terza lezione), sicuro che se non si stringono maggiori dosi di realtà è per insufficienza di calcoli. Intanto si appassiona a discipline che fondano ogni interpretazione sul calcolo: semiotica, strutturalismo; è attratto dai modelli scientifici di analisi della realtà. E questo va soffocando i residui di spontaneità nella sua scrittura. Diventa un saggista sempre più libero e un narratore sempre più represso. La sfiducia crescente nella società non ostacola le sue ricerche sulla società stessa, ma mette in un vicolo cieco le sue storie.