Avvenire, 23 agosto 2023
Montini l’antifascista
Il 28 ottobre 1922, in occasione della Marcia su Roma, lo squadrismo fascista assalta anche la sede delle organizzazioni cattoliche bresciane e quella del quotidiano «Il cittadino di Brescia», diretto per trent’anni dall’avvocato Giorgio Montini, padre del futuro Paolo VI; i fascisti stampano un numero denigratorio del giornale, che lui, indignato e offeso, definisce «lordura», «lerciume», «porcheria» e che gli fa pensare di cambiare nome al «mio “Cittadino” (…) ucciso dai maramaldi(…)».
L’avvocato Montini ha dato vita alla sezione bresciana del Partito popolare italiano, fondato dall’amico don Luigi Sturzo; risulta eletto in Parlamento nel 1919, nel 1921 e nel 1924; ma, dopo l’assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti, fa parte dei deputati aventiniani. «Il Cittadino di Brescia» è soppresso.
Quando Sturzo è costretto a dimettersi dal ruolo di segretario del Partito popolare, il figlio don Battista, da Varsavia, dove è addetto alla nunziatura, commenta con lui la circostanza: «Era fatale che la vita politica dei cattolici non potesse svilupparsi con veste cattolica, e non potesse sopravvivere destituita del prestigio e dell’entusiasmo del suo spiritualismo(…)». Il partito è stato annientato dalle divisioni interne: incapace di portare alti gli ideali degli italiani «liberi e forti», esso è divenuto «un puro partito civile», per cui il popolo ha scelto «che è meglio stare con chi vince che con chi pensa e chi prega».
Il giovane don Giovanni Battista Montini, già dieci mesi dopo la Marcia su Roma, individua chiaramente l’intenzione totalitaria di un movimento che concepisce «la nazione come un partito» e giustifica l’autorità dello Stato con la prepotenza.
Tutta la famiglia Montini è antifascista. Il fratello maggiore di Giovanni Battista, l’avvocato Lodovico, appoggia il raggruppamento cattolico apartitico della Resistenza denominato “Fiamme Verdi”, del quale fanno parte anche alcuni sacerdoti; viene ricercato dalla polizia fascista e si rifugia in Vaticano, aiutato dal fratello monsignor Giovanni Battista; la moglie viene arrestata. Il fratello minore, Francesco, medico, nel 1944 fa rifugiare nella casa di famiglia di Brescia amici braccati dalla polizia; la sua futura moglie, Camilla Cantoni Marca, svolge un’intensa attività durante il periodo della Resistenza. Anche il vescovo che ordina sacerdote Montini, il 29 maggio 1920, monsignor Giacinto Tredici, favorisce un’opposizione culturale al regime, appoggia il Partito popolare e in seguito diviene un riferimento per la Resistenza. L’Oratorio bresciano della Pace, dei Filippini, che all’epoca è frequentato da ben 1.500 giovani ed è punto di riferimento per l’educazione religiosa e civile dei fratelli Montini, viene attaccato duramente con diversi atti vandalici dalle squadracce fasciste. Lo stesso succede in tutta Italia alle sedi della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), della quale Montini dall’ottobre 1925 è assistente ecclesiastico. Egli, nelle lettere a casa, dopo aver rassicurato i familiari a seguito delle incursioni dei drappelli in camicia nera – «sto bene e affatto incolume» – riflette sempre sulle conseguenze di questi fatti sulla coscienza degli italiani, divenuti «imbelli e adulatori». Il fascismo viene letto anche come un «trionfo delle tendenze areligiose, se non proprio antireligiose, che sono radicalmente incapaci di comprendere, non solo la finalità educativa del cattolicesimo, ma neppure la sua efficienza sociale». Montini è scandalizzato da una concezione politica avulsa da un robusto senso morale, dove «chi più osa, sembra cittadino più meritevole» e chi vince ha ragione. È la concezione dello «Stato pagano, a sé sufficiente, indipendente, e dominatore d’ogni esteriore attività». Definito nel 1927 dalla polizia «audace organizzatore» degli universitari cattolici, scrive in un articolo in “Azione fucina”: «La Fuci dev’essere in testa. E con la sua testa». Le «opere che sfidano il tempo» sono «i libri ed i templi». Oggi è necessario sostituire la «conquista dello Stato» con l’intervento «più lento forse ma più durevole» sulle anime: «conquistare anime, libri, scuole, masse, istituzioni, il mondo, al regno della luce, del Maestro» significa costruire la responsabilità sociale futura, diffondendo idee e creando «coscienze», vera parola d’ordine del fucino. Oggi si lavora con impegno laddove possibile, mentre «la coscienza vigila, il cuore trepida, l’anima aspetta».
Nel 1928 l’oratoriano Giulio Bevilacqua, che Paolo VI creerà cardinale il 22 febbraio 1965, ora preposito della Pace di Brescia, è costretto a rifugiarsi a Roma, ospite proprio nell’abitazione di monsignor Montini, perché inviso al regime. Per un certo periodo, «don Gbm» (come si firmava Giovanni Battista Montini), il padre e i fratelli, sono sorvegliati dalla polizia fascista e quindi, man mano che passano gli anni, le osservazioni nei confronti del regime, nel loro carteggio, si rarefanno, per temute censure. Ad esempio, il 5 gennaio 1924, dopo l’aggressione dell’onorevole Giovanni Amendola (deputato di area liberale), don Battista scrive soltanto: «Qui regna una grande apprensione per i fatti politici; v’è intorno un’atmosfera pesante come quella d’un giorno di temporale. Che il Signore abbia pietà ancora una volta di questo nostro infelice paese». Così, pochi giorni dopo il delitto Matteotti può appena commentare: «Preghiamo per il nostro povero paese».
A fine agosto 1926, durante il congresso di Macerata, i fascisti senza motivo aggrediscono i giovani fucini; Montini, che è presente, commenta in una lettera ai genitori: «Grande sfoggio di forza» cui si è opposto il «meraviglioso contegno dei giovani». Il 3 novembre 1926, scrive all’amico Renzo De Sanctis: «Qui oggi abbiamo avuto amarissime notizie: a Brescia, circa un milione di danni; a Trento, tutto occupato; a Verona, a Cagliari, a Rimini, ecc. danni e vessazioni gravi. È sonata l’ora della prova? Dio abbia misericordia di noi e dell’Italia». E il giorno successivo invita i genitori a «benedire e sperare con fermezza invincibile» contro questa pavida «logica della rivoluzione» che porterà il fascismo a morire per «indigestione» di prepotenza.
Subisce attacchi a mezzo stampa: ad esempio, nel giugno 1941, e già è accaduto nell’agosto 1940, Roberto Farinacci lo accusa sulla rivista «Regime fascista» di atteggiamento antiitaliano e collaborazionismo con gli inglesi: lui vi si riferisce con una certa nonchalance nelle lettere a casa, parlando di «frecciate cattive» sul «solito giornale».
Dirà Montini nel 1958, quando era stato nominato pochi anni prima arcivescovo di Milano: «(…) abbiamo passato un ventennio, in cui non era possibile pensare e, soprattutto, esprimere». E in una lettera del 1959 Giorgio La Pira gli dirà di aver appreso da lui il «coraggio civile», dimostrato «durante il torbido periodo fascista»; come tanti intellettuali e politici protagonisti della ripresa italiana sottoscriveranno, in diverse forme, questo debito di riconoscenza. L’«ora della prova» di Montini, come lui stesso auspicava nel 1926, non è stata vana.