il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2023
Capri, quando il bikini finì in pretura
Mentre arriva a Capri, in un aprile dolce d’inizio Novecento, Alberto Savinio scorge dalla Barca – veliero con l’aspetto spavaldo di una nave corsara – il profilo dell’Isola azzurra. A illustrargli i luoghi più famosi è Circe, apparsa da uno squarcio in cielo. Scopriamo così che lo scoglio della Marina Piccola un tempo era consacrato alla Venere terrestre: “Tutti gl’iperborei, tutti gli Sciti, tutti i Barbari che spinge quaggiù l’ardente desiderio di inclassichirsi, usavano raccogliersi nelle ore meridiane alla Marina Piccola, a rinfrescare nel ceruleo mare le nude e accalorate membra. Erano allora, al cospetto del gran Nettuno scotitore dell’universo, amori frenetici, accoppiamenti orrendi, gesta degne della reggia di Minosse. Ma da quando costumi più puri e più salde leggi governano questa terra, le autorità locali hanno comandato di servizio due carabinieri che, severi e malinconici, sorvegliano i fasti della Marina Piccola. Biondi Ganimedi e fosche Pasifae sono dileguate in un baleno”. Comincia così il piccolo ma non meno prezioso viaggio in “questa terra consacrata dalla natura al riposo della mente e alle delizie dei sensi” raccolto nell’adelphiano pamphlet Capri. Già nel 1926 si poteva notare “il dualismo che divide la vita caprese in due parti ben distinte: quella silenziosa ed elementare degli autoctoni o aborigeni che dir si voglia, e quella truculenta, tra frivola ed estetizzante, di tutti gli ulissidi che, attratti dal non mai spento canto delle Sirene, convengono qui dai punti più remoti del globo”. La parte più vistosa della vita caprese, che ha fatto di questa roccia uno dei punti più magnetici dell’universo, è quella “oziosa” e “flirtesca”. Prima di diventare un marchio commerciale, Capri è stata l’isola della depravazione. Svetonio attribuisce all’imperatore Tiberio, che a Capri si era trasferito millenovecento anni esatti prima del viaggio di Savinio, ogni sorta di irriferibili turpitudini compiute con giovanissimi fanciulli, nelle grotte marine e nella sua Villa Iovis.
Nell’Italia post bellica, regnante la morigeratissima Dc di Giulio Andreotti il censore, i costumi sono sorvegliatissimi: dice Proust che si diventa morali appena si è infelici (All’ombra delle fanciulle in fiore). Il 21 luglio 1950 il futuro presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, in un ristorante romano di via della Vite, rimprovera la malcapitata Edith Toussant, una signora che causa caldo si era tolta il bolero che copriva la scollatura. Sul BorgheseGianna Preda racconta lo sfogo dell’onorevole: “È uno schifo, è vomitevole! Lei manca di rispetto alle donne presenti; così vestita è una donna disonesta”. Va detto che l’anno prima, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi aveva promesso di istituire in ogni Prefettura un Ufficio segnalazioni, dove “la brava gente” avrebbe potuto denunciare le offese al pudore. Nello stesso anno “per ragioni di moralità internazionale” un concorso radiofonico istituito sull’isola non si era potuto intitolare “premio Capri” (le radio si erano opposte). Scopriamo dal delizioso volumetto Pudore caprese (edizioni La conchiglia) di Fausto Esposito, magistrato che a Capri fu pretore alla fine degli anni Ottanta, che nel 1950 la pretura locale si occupa assiduamente di offese al pudore. Una denuncia incrimina un prendisole, indumento tipicamente caprese composto da strisce di stoffa da indossare sopra il costume, esposto tuttavia ai venti che lo fanno sventolare facendo grave torto al decoro. Ma il pretore – evidentemente in giornata di bonaccia – assolve la spudorata. Otto procedimenti, naturalmente penali, si occupano poi di slip maschili, anche a causa di una circolare del ministro dell’Interno Mario Scelba che vietava slip e bikini, “indumenti che non rispettano le più elementari norme di pubblica decenza”. Ma non c’è, sull’isola del vizio, nessuna condanna per uso di slip. Alla sbarra finiscono, “per offesa al comune senso del pudore” tre giovani romani, due ragazzi rei di aver amoreggiato, in momenti diversi, con la stessa svergognata fanciulla. All’alba del 18 giugno una coppia di maturi e indignati stranieri segnala alla ronda di recarsi con urgenza in piazza con le definitive parole “Capri, poca morale”. Uno degli imputati baciava licenziosamente l’imputata e attorno altri 19 maschi tastavano voluttuosamente il di lei corpo. Al tramonto dello stesso giorno riapre il Quisisana con un ballo in maschera. Diverse persone notano l’esagerata intimità di una coppia che si bacia: si tratta della stessa scostumata fanciulla e di un altro giovanotto. Così il rapporto della ronda: “Il comune senso del pudore, variabile nel tempo e nello spazio, offre a Capri più larghi limiti che altrove, prima di potersi ritener offeso. Ma (è troppo) la giovane donna e l’assiduo cavaliere tenevano voluttuose e artificiose positure”. I due vengono arrestati “perché costituisco un pericolo per la pubblica morale, già tanto difficile da contenersi in questa stazione climatica”. I tre libertini vengono condannati il giorno di San Valentino del 1951, ma assolti nel successivo grado di giudizio perché il difensore, prendendo a pretesto le parole del rapporto della autorità, invoca “i limiti del pudore caprese, ben più ampi di quelli di altre città”. E il giudice, spudorato, accoglie: la legge è uguale per tutti, ma non dappertutto…