La Stampa, 23 agosto 2023
Il giallo Oppenheimer
Viviamo in un’epoca pericolosa e miracolosa, assediati da crisi di ogni tipo ma anche circondati da giganti al lavoro. A volte questi giganti intrattengono conversazioni segrete, eppure ben disposte all’evidenza di uno sguardo curioso. Un esempio perfetto? Oppenheimer di Christopher Nolan – film enorme in ogni senso, in uscita oggi in Italia – ha un clamoroso antecedente nell’opera lirica più importante degli ultimi vent’anni, Dr. Atomic, del compositore americano John Luther Adams, messo in scena dal regista britannico Peter Sellars nel 2005. Ed entrambe queste operazioni hanno emesso flessioni di luce percepite da una figura esemplare della letteratura di ogni tempo, Cormac McCarthy, che a 89 anni, poco prima di andarsene dal nostro universo, ha rilasciato due romanzi diversi e connessi, Il Passeggero e Stella Maris, i cui protagonisti, il multiforme spirito in fuga Bobby Western e la matematica suicida Alicia, fratello e sorella, uniti da un legame assoluto e maniacale, sono figli di uno dei fisici che ha aiutato Oppenheimer nel progetto Manhattan.
Proviamo a fornire alcune indicazioni per chi voglia capirne e saperne ancora, ricordando che quando si confrontano opere tra discipline diverse l’erba di tutti i vicini è sempreverde. Il modo migliore per affrontare la maratona cinematografica di Nolan è innanzitutto leggere la biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwyn, tradotta in Italia proprio quest’anno da Garzanti. Ma se si vogliono aprire le porte della percezione culturale, su iTunes o Spotify si può ascoltare il meraviglioso affresco di John Adams, che alterna il dinamismo massimalista delle sue opere orchestrali con improvvisi squarci in cui ritorna il pulsare minimalista degli inizi: se avete paura della musica contemporanea, non temete, siamo di fronte a un castello ritmico e armonico viscerale, e non bisogna aver studiato nulla per goderne esattamente come si gode di una Tosca.
Nella partitura di Adams il terrore e la bellezza che dominano le menti dei protagonisti del progetto Manhattan – di cui a differenza del film sono raccontati quasi solo gli ultimi giorni prima del test – sono incarnati da recitativi e parti cantate, tutte incentrate sul doppio binario dei dettagli tecnici e del tremore della coscienza davanti alla cupa magnificenza della Natura destruens. Ma la vera impressione – come nel film, che è un fiume di parole in attesa spasmodica della «visione» – accade quando l’orchestra esplode in fortissimi devastanti, oppure quando agli strumenti classici si affiancano sintetizzatori, sequenze e frequenze, disturbi simili a droni sonori, urla da incubo, che poi lasciano spazio ad ampi tratti di relativa calma, con una voce femminile che legge in giapponese il reportage di John Hershey da Hiroshima distrutta, uno dei più impressionanti mai scritti in qualsiasi lingua, come una «vera coscienza» che parla dal «dopo bomba» a Oppenheimer, in una dilatazione terrificante: come nel Parsifal, tutto sembra insieme qui e altrove, spazio e tempo, intatto e distrutto, poco prima o poco dopo.
L’elemento religioso d’altronde avvince tutta la storia di Los Alamos, se si pensa che il nome dell’ordigno, Trinity, viene da una poesia di John Donne, poeta e sacerdote. Sia in Dr. Atomic che in Oppenheimer si vede lo scienziato isolato, chiuso nella sua torre d’avorio, a contemplare il prototipo della bomba, e per gli studiosi del futuro sarà interessante vedere come la medesima materia venga trattata da codici espressivi diversi. Così sarà altrettanto intrigante aprire il capolavoro di Mc Carthy a caso e leggere le straordinarie conversazioni che ha con i diversi comprimari della vicenda Bobby Western (integrate nel tessuto della prosa) oppure le allucinatorie pagine in corsivo in cui l’autore da voce alla schizofrenia di Alicia. Nella finzione del romanzo, ambientato nei decenni della guerra fredda, sia Bobby che Alicia erano stati due bambini prodigio coi numeri, ma solo Alicia si dedica poi davvero agli studi, mentre Bobby vive come un re-filosofo in esilio dalla propria stessa esistenza, alla deriva dopo il suicidio della sorella cui la lega un amore totalizzante, mentre la sua vita sembra sempre più minacciata da una serie di persecuzioni forse legate al furto delle carte su cui lavorava suo padre. Quando alla fine del romanzo, costretto a lasciare l’America e a finire in un rudere a Formentera, Bobby Western scrive una lettera alla sorella, appaiono sulla pagina alcune delle frasi più strabilianti che mi sia capitato di incrociare: invito il lettore curioso, dopo aver visto Nolan, ascoltato Adams, a leggerle, come una controparte delirante ai turbamenti di Oppenheimer di fronte alla «sua» creatura: «Il monello di Dio che arrancava ammantato e bofonchiante sull’arido valico di qualche anonima landa desolata dove il mare gelido e siderale ribolle e si frange e le tempeste arrivano ululanti da quel nero e ondulante alkaest» (nella bellissima traduzione di Maurizia Balmelli). L’alkaest, nell’antica alchimia, era un mitologico «solvente universale» capace di sciogliere qualsiasi metallo o lega, citato per la prima volta da Paracelso in un trattato del 1526.
Ora pensate a Oppenheimer nel deserto di Los Alamos, con gli occhi inquieti di Cillian Murphy. Forse la bomba possedeva in qualche misura la promessa di una soluzione – letterale e materiale e storica e metafisica – di tutto ciò che è umano. «Alla fine non ci sarà niente che non possa essere simulato. E sarà il superamento definitivo del privilegio. Questo è il mondo che verrà». A volte per capire a fondo una storia ci vuole una musica, e per sentire davvero la musica di quella storia c’è bisogno della prosa di un’altra storia. Bobby e Alicia Western sono i dettagli nascosti del film e oltre l’esplosione del 16 luglio 1945 ci sono le note immaginate da uno di noi, nipoti della bomba. Le ultime nove parole del romanzo sono: «cantando piano sul suo giaciglio in una lingua sconosciuta». Forse tutto il dolore e tutta la ragione della bomba sono lì, nel pericolo e nel miracolo di continuare a conoscere una lingua sconosciuta. —