la Repubblica, 23 agosto 2023
Intervista a Paolo Pellegrin
Sul bordo del buco nero della storia, qualcunodeve pure affacciarsi e guardare. Paolo Pellegrin sta per inaugurare la grandemostra retrospettiva di oltre trent’anni del suo lavoro di fotogiornalistaper Magnum e per le maggioritestatedel mondo: “L’orizzonte degli eventi” (fino al 7 gennaio 2024), a cura di Denis Curti, alle Stanze della fotografia di Venezia.
Cisaranno le sue icone celebri, la madredi Jenin,la bambina in fugadi Tiro, i soccorritori di Beirut… Ma anche il suo lavoro sui temi planetari, come la crisi delle risorse, e alcuni esperimenti di cui è giusto lasciare la sorpresa. È l’itinerario di un testimone oculare,nel momentoincuiilmondo deimediasembra volernefare ameno, in cui l’idea stessa di testimonianza sembradiventare superflua. Incontro Pellegrin mentre torna dall’Ucraina. È difficile intervistarlo se non quando torna, o quando sta per ripartire.
Quante volte sei stato in Ucraina in questo anno e mezzo di guerra?
«Questa dev’essere la quinta».
Negli ultimi anni hai lavorato su temi di lunga durata, l’ambiente, il paesaggio. La storia breve ti ha riconvocato?
«Breve,dici?Non sappiamoquanto durerà questaguerra purtroppo. E poi la distinzione tra storia breve e storia lunga non miconvince. Sai cosa disse Chou En-laiquando gli chieseroun giudizio sulla Rivoluzione francese? “È ancora troppo recente”...».
Diciamo allora che l’orizzonte degli eventi continua a catturarti…
«Da anniquesto titolo sta in un angolo deimiei pensierie finalmente ho potuto usarlo.Contiene solo due parolema sonole parole chiave attorno a cui gira tutta la mia esperienza.Orizzonte, perché ho sempre cercato di guardare l’insieme, hosempre inclusoun orizzonte, magariin diagonale… Eventi, perché alla storia non si sfugge. Gli eventi sono cosedure,chenon puoinegare».
Però è una definizione astronomica, riguarda i buchi neri.
«Mela suggerìilmio primogrande mentore fotografico,Enzo Ragazzini, benprimachediventasseuna definizione popolare. Mi fa pensare a unospazio dove la lucenon passapiù, le radiazioni luminose nonescono, unospazio che ha una sua sacralità, qualcosa che incontrospesso nelmio lavoro: il senso di entrare in un luogo doveaccadonocose piùgrandidi me».
Ma è anche il bordo oltre il quale gli eventi vengono inghiottiti e non si vedono più, giusto?
«Appunto, c’è l’altra faccia della storia, il pericolo che tutto finisca in un imbutodovequel cheaccade nondice piùnullaa nessuno».
Siamo su quel bordo?
«Hoquestotimore,quandovedo affermarsi l’idea che i fatti siano tutti confutabili,che non esista più non dico una verità, che èsempre relativa, maneppure una realtà, che invece èlì esolida comeuna roccia».
Le menzogne, nel mondo dell’informazione, ci sono sempre state, cosa c’è di nuovo?
«Sì,ma unconto èmentire per far credereveroqualcosache non loè, un conto è suggerire l’idea che tutto sia falso, che non valga più la pena di chiedersi che cosa sia reale. Io credo sia in atto una strategia sofisticatissima per togliere peso alle coseche contano davvero: la vitae la morte dell’altro. Se tutto è discutibile, tutto diventa possibile, anche il peggio».
Questo che impatto ha sul lavoro
del testimone oculare?
«Devastante. Tu vai, vedi, registri, riporti, racconti, e qualcuno ti dice be’, sono solo opinioni. La testimonianza diventa solo una delle possibili narrazioni, neanche la più credibile.
Sto maturandouna idiosincrasia verso certiatteggiamenti…».
Quali?
«Quellidi chi giudica a distanza, senza lacontroprova del reale. Credimi, quandosei sul fronte dell’evento, sotto uncieloda cui cadono ognigiorno da venti a quarantamila colpi di artiglieria, gli opinionisti a distanza comincianoad apparirtiinsopportabili».
Le fotografie sono state per due secoli l’antidoto allo scetticismo: era come dire ecco, lo vedi, non puoi negare che sia così. Ora sembra ribaltarsi tutto: se una immagine esprime bene quello che penso, cosa importa se è autentica o no?
«Iovengo da una storia, quella del fotogiornalismo classico, anglosassone,dove è la realtà che mette alla prova le tue opinionie non viceversa.Non si può faretroppa teoriao troppa poesia nel mio lavoro».
Le fotografie della tua carriera portano un fortissimo segno della
tua personalità…
«Il mito dell’oggettività dell’immagine ècrollato da parecchio, nessuno si illude o vuole illudere di riportare la realtà così com’è. Ma in quella tradizione che dicevo hai un patto col lettore e lo devi rispettare. Io sono un occhio delegato,vado lì a vedere per te,e trovo unmodo,uno strumento, un linguaggio, anche uno stile se vuoi, percomunicarti quello che hovisto, e magarianche come l’ho visto.In questo patto c’è posto per l’interpretazione, ma nonper la manipolazione ideologica, perla disonestàtendenziosa. Sarebbe immorale.Quando seiinuncontesto così, stai raccontando i destini delle persone.Puoi sbagliare, ma nonpuoi barare».
Tutto questo si chiama ancora fotogiornalismo?
«Un’altracosa che sopporto sempre menosono le definizionigabbia, le definizioni maschera che incasellano.
Io,dicevo, mi riconosco in una tradizione di fotogiornalismo classico, quelloin cui devi andare e vedere.Ma ormaipreferisco mettere unpunto e nonun trattino dopo la parola fotografo».
Allora, cosa definisce il tuo lavoro oggi?
«Una cosa molto fisica, credo. Essere lì col corpo. La necessità di affermare con il fatto indiscutibile della tua presenzamateriale che le cose accadonoancora, nelmondorealee nonsolo nellamente, o nei processi degli algoritmi».
Ma ora anche Amnesty International per denunciare la repressione in Colombia sceglie di utilizzare un’immagine prodotta dall’intelligenza artificiale…
«Èquel che stodicendo: se cominciamo a sostituire alla realtà il nostro pensiero della realtà, vuol direcheabbiamo smesso dicercare tracce della realtà. Su cosa baseranno il loro giudizio gli storici del futuro? Sulle nostre immaginazioni?In Ucraina sta accadendoqualcosadimacroscopico, paragonabile solo alla seconda guerra mondiale.Come èpossibile non documentarlo?».
Ma l’intelligenza artificiale sa produrre immagini molto ricche di dati, informazioni, dettagli…
«Va bene, l’intelligenza artificiale ne sa piùdime.Ma lemancaunacosa:il mistero.Non stoparlando di cose mistiche o religiose. Dico quella cosa straordinaria che è essere lì, dove le coseavvengono,sapendochenonle capisci finoin fondo, mache proprio perquesto devi aguzzare la vista.
Se trascuriamo quella parte, lo strumentosarà ancheintelligente ma affonderàle radicisempre e solo inquello che già sa,non scoprirà più nulla.Bisogna affrontare l’inspiegabilitàdel mondo, prima che sia troppo tardi».
Lo hai chiamato “senso di ultimità”.
«Cisonomomentichenonpossono andarepersi. Unmondochefacciaa menodelle immaginidel realemi fa paura».
Stai per compiere sessant’anni.
Cosa provi riguardando la scia di immagini che hai lasciato dietro di te finora?
«Pensoche mentre cercavo dilasciare tracce della storia in corso, accumulavoanche un’analisi della miapsiche. In questa mostra c’è il mondocheho fotografatomaci sono ancheio. C’è un corpo ec’è un pensieroche sono stati lì, perché qualcunodoveva esserci».