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 2023  agosto 23 Mercoledì calendario

Intervista a Carolina Castagna. Parla del papà Alberto


«Quella mattina d’estate papà mi portò a pesca per la prima volta, a Sabaudia, nostro luogo del cuore. Avevo 4 anni. Sveglia all’alba, tanto dormivo poco già allora, proprio come lui. Aveva un gozzetto, battezzato “Scaròla”, il mio soprannome. Mi chiamava così: “Scaro, Scarolina, Scaroletta”, con la esse davanti. Mentre era al timone, di nascosto alzavo lo sportello a poppa e ributtavo in mare i pesci, perché mi dispiaceva per loro. Lui li ripescava, gli stessi, mezzi rintronati, e io li liberavo di nuovo. Quando se ne accorse non si arrabbiò. Mi spiegò che non eravamo cattivi e che quella sarebbe stata la nostra cena. Grande cuoco, gli piaceva invitare gli amici, casa nostra era piena di gente a qualsiasi ora. Un’altra volta prese un tonno gigantesco, più alto di me. Mi scattò una foto ricordo, portavo un’impermeabile giallo». Carolina, 31 anni, medico, è l’unica figlia di Alberto Castagna. Mr. Stranamore, giornalista e popolarissimo conduttore tv scomparso nel 2005 a 59 anni, per emorragia interna. Nel luglio del 1998 era stato colpito da un doppio aneurisma dissecante all’aorta, 8 mesi di ricovero al Policlinico Gemelli. Lo stesso ospedale dove lei, che vive tra Roma e Filadelfia, si sta specializzando in Igiene e Medicina preventiva. Aveva 6 anni quando lui si ammalò, 13 quando morì.
Che padre era, Alberto?

«Per spiegarlo non basterebbe un libro. Complicatissimo. Affettuoso e presente, ma anche molto ragazzino, impaurito dall’idea di essere genitore. A volte, tra noi due, l’adulta ero io. Era già malato, i dottori gli avevano dato la lista degli alimenti che non poteva mangiare. Tipo le pesche, che contenendo molto potassio gli alteravano l’equilibrio degli elettroliti ed era un guaio. Lo beccai in cucina a mangiarle di nascosto. Oppure si chiudeva in bagno a fumare e prima di uscire spruzzava in aria il patchouli. Se lo rimproveravo, sospirava: “Non ho una figlia, ma una badante”. La bacchettona di famiglia, fissata con le regole, sono sempre stata io. Mamma (la dermatologa Pucci Romano) lo copriva. Erano già separati. In coppia erano un match terribile, da amici e genitori invece fantastici. Si scambiavano le ricette delle polpette: “Però sono meglio le mie”».
I vostri momenti felici.
«La mattina presto, seduto su una spiaggina in riva al mare, con me in braccio, mi insegnava le correnti, i venti, le maree. Mi interrogava: “C’è libeccio o maestrale? Si può uscire in barca?”. Voleva che diventassi un bravo mozzo. Due anni fa ho preso la patente nautica, sarebbe contento».
Severo o pezzo di pane?
«Buonissimo, a livelli imbarazzanti. Pur di accontentarmi mi avrebbe concesso qualsiasi cosa e non parlo per forza di regali. Una sera gli dissi, dal nulla: “Vorrei andare a cavallo”. Il giorno dopo mi portò al maneggio. Mi aveva preso tutta l’attrezzatura. Dopo un po’ mi scocciai: “Voglio scendere, non mi piace”. E andammo a giocare a bowling».
Gliele dava tutte vinte.
«Gli chiesi di comprarmi 50 mila lire di caramelle Goleador, nei tre gusti: cola, frutta e liquirizia. Il tabaccaio ci prese per matti. Papà non fece una piega, saranno state sette chili, mi durarono un anno. Mi viziava. Non mi chiamava “principessa”, però mi trattava come se lo fossi. Mi ha insegnato la leggerezza. Cerco di essere come lui».
Un no lo avrà pur detto.
«A 12 anni volevo andare tre settimane in Inghilterra a studiare l’inglese. Mamma era d’accordo, lui no. “Sei troppo piccola”. L’unica volta in cui abbiamo discusso. Aveva paura che ci fossero i ragazzi. Era molto geloso. “Prometti che ti fidanzerai solo a 37 anni”. Non un bell’augurio». Carolina ride. Si è sposata un mese fa con un ragazzo americano. «Non sopportava l’idea che mi piacesse qualcuno».
Poveri corteggiatori.
«Non ne ha visti molti, purtroppo. Un mio amico si presentò al saggio di danza con un mazzo di fiori. Papà si allarmò. “Ma voi che fate quando state insieme?”. “Andiamo al cinema”. “Sì, ma lì poi che fate?”. Ero piccola, non capivo il senso della domanda».
Tanti gli amici celebri.
«Fabrizio Frizzi, Maurizio Costanzo e Maria De Filippi, Pippo Baudo. Papà aveva delle tastiere, con zio Pasquale organizzava serate infinite al karaoke. Cantavano tutti in coro, sì anche Pippo e Maurizio. Una sera venne a suonare Umberto Smaila. Ci sono rimasti vicini anche dopo».
La malattia improvvisa.
«Di colpo era sparito. Mamma fu molto onesta. Mi spiegò che non stava bene e che non sarebbe tornato per molto tempo. Che era ricoverato in terapia intensiva, con tanti tubi intorno. Un giorno, in classe, annunciai che era morto. La scuola chiamò subito casa. Non era vero. Mia madre capì che avevo bisogno di vederlo. Smosse mari e monti e ottenne di farmi entrare da lui. Mi vestirono con camice, cuffietta e salvascarpe, mi stava tutto largo. Sembravo il piccolo chimico».
E quando l’ha visto?
«Mi sono spaventata. Soprattutto perché non aveva più i baffi, glieli avevano tagliati, non lo avevo mai visto così. “Senza baffi sembro una melanzana”. Era comunque lui. Dormiva. Mamma mi spiegò che non saremmo potute tornare tutti i giorni. “Gli puoi mandare dei disegni”. “No, lo so cosa desidera papà. Le mie barzellette registrate”. Un nostro gioco. Gli preparai una cassetta. Un giorno poi mi disse che sì, le aveva sentite, non so se fosse vero».
Il ritorno a casa.
«Ho capito quanto fosse fragile. Era magrissimo. I nostri abbracci spigolosi. Dovevo proteggerlo. Ero contenta che fosse di nuovo con noi, ma non era più la stessa persona. Diventai più ansiosa, meno bambina. Costretta a crescere in fretta. Fingeva di stare bene. “Sono l’uomo più forte del mondo”. Avrei preferito che non dicesse bugie, che mostrasse la sua debolezza, ma ognuno in certi momenti fa il meglio che può».
Sette anni dopo.
«Mamma rientrò in lacrime e mi disse che papà non c’era più. Era un martedì. Fino al giorno prima stava bene. Avevamo passato il pomeriggio insieme, mi aveva comprato il cd di Beyoncé. Quando, due anni fa, ho perso anche Stefano, il secondo marito di mia madre, è stata dura. Piaceva moltissimo anche a papà: “Se dovessi lasciarti, so che con lui sei in buone mani”. Da loro ho imparato che più ci si vuole bene tutti quanti e meglio è».
Il vuoto.
«Mi mancava tanto, piangevo. Ero arrabbiata. Avrei voluto più giorni con lui. “Non mi è bastato”. Dopo ho capito che, anche se lo perdi a 80 anni, il tempo passato con un genitore non ti basta mai».
L’ultimo ricordo.
«Poco prima che morisse. Ero appena diventata “signorina”, stavo da lui, ma papà fu preso dal panico. Mamma al telefono gli raccomandò di andarmi a prendere il necessario in farmacia, lui si vergognava. “Pucci, però il discorsetto dopo glielo fai tu, eh”. Uscì ma tornò a mani vuote. A parte un cd di Tiziano Ferro».
Le manca ancora molto.
«Vorrei sapere cosa pensa, se gli piace mio marito, raccontargli un viaggio, parlargli di politica. Ho avuto una storia con un tifoso della Lazio. Papà era romanista sfegatato. “Chissà come la prenderebbe”. Poi ci siamo lasciati».
La gente le chiede di lui?
«Spessissimo. “Davvero era tuo padre? Ho i brividi”. Mi scrivono su Facebook. Una ragazza mi ha mandato un suo busto di gesso. Da piccola avevo paura di dimenticarlo, annusavo un maglione che conservava il suo odore. Poi ho capito che le persone vivono nel nostro ricordo, che in fondo non se ne vanno mai».