Corriere della Sera, 23 agosto 2023
Tamberi, oro nel salto in alto con 2,36
BUDAPEST Così si salta solo in paradiso. O a Budapest, al Mondiale che mancava – unico oro – alla collezione personale di questo Peter Pan di Ancona che a 31 anni, marito di Chiara e più grande atleta della storia dell’atletica italiana, ha ancora voglia di radersi a metà la barba, fare cinque salti nella leggenda (tanti gliene bastano per vincere: un erroraccio, poi quattro piccoli capolavori), volare in cima al mondo e poi tuffarsi di faccia e senza scarpe nella riviera delle siepi, mentre lo stadio gli si accoccola ai piedi, facendo le fusa.
Di Gimbo Tamberi ne esiste uno solo, ed è nostro. La gara dell’alto (13 finalisti, incluso l’altro azzurro Fassinotti) fa selezione a 2,29, la soglia dell’eccellenza a cui i due campioni olimpici ex equo di Tokyo, Tamberi e Barshim, arrivano zavorrati da uno sbaglio a testa, però qui a Budapest le vite parallele si separano: mentre l’americano JuVaughn Harrison, 24 anni, genitori di origine giamaicana, treccine rasta, stile selvaggio ma efficace, fa percorso netto, i due amici per sempre si salutano a quota 2,36, lassù dove si decidono le medaglie. Per Barshim non è serata, il giunco del Qatar si piega e alla fine si spezza, Gimbo invece si nutre dell’entusiasmo del pubblico, aizza la folla, respira il tifo della curva, che nel frattempo si è riempita di atleti della compagnia dei celestini, come se fosse ossigeno indispensabile per volare più alto. Uscito Barshim, bronzo (2,33, briciole per un fuoriclasse che si è spinto a 2,43, a due centimetri dal record di Sotomayor vecchio trent’anni), l’oro rimane una poltrona per due: da una parte Harrison from Huntsville, Alabama, doppio talento (alto e lungo), il cavallo pazzo a cui coach Todd Lane è riuscito a dare una quadratura tecnica; dall’altro Tamberi, il giovane uomo che ha sacrificato tutto, incluso il legamento della caviglia sinistra (piede di stacco, correva il 2016, quando il destino sembrò accanirsi), per un meraviglioso sogno affacciato sul Danubio.
Nessuno ha mai voluto questo oro come Gimbo Tamberi, il bambino dirottato da papà Marco dal basket all’atletica, ed è come se davanti al bivio – palla a spicchi o cielo stellato da guardare a pancia in su —, il figlio l’abbia giurata al padre: per colpa tua ho rinunciato alla passione più grande, grazie a me mi prenderò tutto. Insieme i Tamberi, junior e senior, hanno conquistato l’Olimpiade, poi Gimbo ha detto basta («Dopo dodici anni con lo stesso coach mi ero convinto che cambiare fosse impossibile»), si è creato un suo team guidato da Giulio Ciotti, l’ex collega con cui c’è un dialogo inedito, ha trovato la serenità: «Ho una pace mentale nuova, che mi ha aiutato a ritrovare il salto che era dentro di me». Nella notte dei desideri esauditi, già campione di qualsiasi cosa (Olimpiade, Mondiale indoor, Europeo al chiuso e all’aperto), Gimbo si prende l’anello mancante di un’esistenza consacrata allo sport, le sue diete da fachiro sotto gara sono leggendarie, la data del matrimonio è stata fissata solo una volta diventato re di Olimpia (santa donna, Chiara Bontempi), anche la scelta bellissima e importante di un figlio aspettava questa svolta netta dell’esistenza, che indirizza Tamberi – unico dei cinque ori di Tokyo fin qui capace di confermarsi due anni dopo – verso l’immortalità.
A quota 2,36, dopo aver incoraggiato Barontini sui blocchi della batteria degli 800 e Daisy Osakue in pedana nella finale del disco (il lucido pazzoide fece così anche a Tokyo con Marcell Jacobs finalista nei 100), Gimbo si prende un attimo per fissare intensamente le tre medaglie iridate appese a bordo pista, si concentra sull’oro perché è l’unico metallo che è disposto ad accettare, lo ipnotizza. Quando Harrison sbaglia il primo tentativo (e tutti e due poi falliscono 2,38) è oro sicuro: Tamberi ha passato la misura al primo colpo, l’altro no.
Seguono sabba impazzito, capriole, foto con Barshim e il figlioletto Josef, la gag di voler tentare 2,40 (un bluff), abbracci con tutti, felicità. «Mi sento un essere umano che batte i supereroi». Sotto il mantello, un grande cuore.