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 2023  agosto 23 Mercoledì calendario

Il New York Times sfida l’intelligenza artificiale

Potrebbe diventare una delle cause epocali che fanno da spartiacque: il New York Times starebbe pensando di fare causa a «OpenAI», l’impresa che ha inventato «ChatGPT», il software di intelligenza artificiale in grado di confezionare testi inediti su qualsiasi tema.
Potrebbe essere una di quelle cause epocali che segneranno non solo la giurisprudenza, ma anche le modalità di produzione e di consumo sociale delle informazioni. Secondo le indiscrezioni riportate dalla radio americana «Npr», il «New York Times» starebbe pensando di fare causa a Open Ai, l’impresa che ha inventato ChatGPT, il software di intelligenza artificiale in grado di confezionare testi inediti su qualsiasi tema.
Piccolo passo indietro. Nel gennaio scorso Microsoft ha consolidato il legame con l’avveniristica azienda, fondata a San Francisco nel 2015, investendo circa 20 miliardi di dollari. Obiettivo: usare ChatGPT per aumentare in modo esponenziale le capacità di «Bing», il motore di ricerca su Internet, messo a disposizione da Microsoft.
A quel punto l’amministratore delegato di Open Ai,il trentottenne Sam Altman, ha puntato l’attenzione sullo sterminato archivio del «New York Times» e, naturalmente, sulla sua quotidiana messe di notizie, reportage, inchieste. L’idea è di incorporare tutto questo patrimonio negli algoritmi di ChatGPT e quindi di Bing. Risultato concreto: il «motore» di Microsoft sarebbe in grado di rispondere alle domande di un utente con testi plasmati sulla base di articoli, anche esclusivi, pubblicati dal quotidiano newyorkese. Ci sarebbe, dunque, una sostanziale differenza rispetto a ciò che accade oggi. I dispositivi di ricerca digitale, da Google allo stesso Bing, replicano alle richieste dei navigatori rimandando a una serie di siti, dove trovare risposte più o meno soddisfacenti.
L’intelligenza artificiale, invece, proporrebbe scritti apparentemente inediti, senza alcun riferimento esplicito alle fonti utilizzate. È chiaro che questa procedura solleva un gigantesco problema sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale. A meno che non ci sia un accordo economico sottostante. Ed è ciò che Open Ai ha suggerito al «New York Times»: siamo pronti a pagare per avere accesso ai vostri scritti che noi useremo come «materia prima» per alimentare ChatGPT.
Gli avvocati delle due parti, riferisce ancora «Npr», si sono confrontati per settimane. La trattativa è diventata sempre più aspra, fino al punto di rottura. Non ci sono versioni ufficiali, né indiscrezioni sui dettagli del negoziato. Ma l’impressione è che non sia stato possibile dare un valore economico condiviso a un bene immateriale come è, alla fine, un’enorme banca dati. Già nel giugno scorso, a Cannes, nel corso del Lions international festival of creativity, Meredith Kopit Levien, amministratrice delegata del «New York Times», aveva dichiarato: «Deve essere stabilito un compenso equo per i contenuti che i software di intelligenza artificiale stanno già sfruttando e per i contenuti che saranno usati per addestrare questi modelli».
Ora il «New York Times» sta valutando se portare in tribunale Open Ai per tutelare i propri diritti editoriali. I legali del giornale, come anticipato proprio da Kopit Levien, sospettano che i tecnici della società californiana abbiano già fatto ricorso ad articoli di stampa, e quindi anche del «New York Times».
In teoria il processo in tribunale potrebbe avere sviluppi clamorosi. Le leggi federali che proteggono il copyright sono molto severe. Il giudice può comminare un’ammenda fino a 150.000 dollari per ogni articolo riprodotto,«consapevolmente» recita la norma, senza il consenso dell’autore. E qui sono potenzialmente in gioco milioni di «pezzi». Ne risulterebbe una cifra che, semplicemente, farebbe fallire Open Ai.
Se il «New York Times» andrà fino in fondo si potrebbe arrivare, dunque, alla ridefinizione dei rapporti di forza contrattuale tra i produttori di contenuti e le piattaforme Internet, potenziate dall’intelligenza artificiale. Finora si sono mossi scrittori, autori teatrali e cinematografici che hanno promosso una «class action», cioè una causa collettiva, contro Open Ai.