La Stampa, 22 agosto 2023
Una vita da celiaca
Di tutte le relazioni tossiche che ho avuto, quella con il glutine è l’unica che non ho superato. Le persone nocive, una volta che le hai capite, incasellate e allontanate, implodono nei tuoi pensieri, si afflosciano su sé stesse come un soufflé venuto male. Quando scopri di essere celiaca, invece, anche un soufflé venuto male ti manca. La tua vita si ribalta, i gradi di libertà si riducono, il controllo su quello che mangi schizza alle stelle, l’ignoranza diffusa su cosa sia questa malattia ti travolge.
Io e il glutine ci siamo lasciati a febbraio di quest’anno, dopo settimane di analisi, esami, tavole rotonde, negazione e irrazionalità, quando il dottor Giovanni Latella, avenger della celiachia, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: «Lei è celiaca». Sei mesi prima, una mattina di fine settembre, mi ero svegliata con un groppo in gola e avevo sputato sangue. Non era la prima volta che mi succedeva, anzi: nei dieci anni precedenti era successo varie volte, ma i gastroenterologi avevano detto sempre la stessa cosa, che la mia esofagite da reflusso era molto aggressiva, che i succhi gastrici mi ferivano l’esofago, che dovevo fare una dieta e prendere dei farmaci ma soprattutto che dovevo stare calma. Praticamente tutti i medici che ho incontrato nella mia vita, a un certo punto, mi hanno detto che dovevo stare calma, che ero troppo emotiva, troppo sensibile ai cambiamenti e allo stress, che sì il ferro era sempre più basso ma vabbé quella era una semplice anemia, che la pancia mi si gonfiava spesso perché sicuramente non avevo una buona alimentazione, che «ascolti, la birra fa praticamente male a tutti». Nessuno ha mai parlato del glutine e quindi io non me ne sono preoccupata, concentrandomi invece a detestare il mio corpo melodrammatico, con quell’apparato digerente patetico e quell’esofago vergato a sangue da una drammaturgia degna di Molière.
«Metaforicamente hai sempre sputato sangue», ha commentato mia madre, più melò del mio corpo: «e ora possiamo dire che lo hai fatto anche letteralmente». Peccato, però, che da quell’ultima volta, da quella mattina di fine settembre, non ho mai smesso, nonostante i farmaci, la dieta e le meditazioni che mi faceva fare mia sorella, quindi sono stata obbligata ad andare a farmi psicoanalizzare dall’ennesimo gastroenterologo, che però è anche stato il primo che ha parlato del mio duodeno e di una possibile celiachia. «Figurati», ho pensato io: «ma quale celiachia, io e il glutine ci amiamo, ma che ne sa questo».
Di tutte le relazioni tossiche che ho avuto, quella con il glutine è quella che mi ha lasciato più segni: villi gastrici atrofici a un quarto di cinque stadi, una fortissima intolleranza al lattosio, una ferritina ormai quasi a zero, due polipi alla colecisti e disturbi ginecologici di vario tipo. «Tutto reversibile nel giro di un anno, si spera, eliminando glutine ed eventuali contaminazioni dalla sua dieta», mi ha detto il dottor Latella. «E poi?», ho chiesto io nella più completa disperazione. «E poi niente: non sarà più malata, ma continuerà a essere celiaca». «Per sempre?». «Per sempre».
La celiachia, infatti, è una patologia cronica che provoca una risposta autoimmune dell’organismo all’assunzione di glutine: il corpo attacca sé stesso, provocando una serie di reazioni a catena che colpiscono diversi organi e diverse capacità. Osteoporosi, infertilità, depressione, epilessia, dermatite possono essere tutti sintomi della celiachia, manifestazioni atipiche che spesso costituiscono il quadro della malattia quando si attiva in età adulta e che ne rallentano così tanto l’evidenza che solo un terzo dei celiaci sa di esserlo. Gli altri, ignari, continuano ad avvelenare il proprio corpo, come ho fatto io negli ultimi sette anni – questa è la stima del medico sul mio specifico caso, perfettamente in media con il tempo necessario per una diagnosi.
Secondo gli scienziati, la predisposizione genetica è necessaria ma non sufficiente per l’insorgere del morbo, a questa si aggiunge sicuramente un altro fattore non ancora identificato, che potrebbe essere genetico o anche ambientale, per esempio un trauma. «Un trauma?», ha commentato mia madre, più atipica dei miei sintomi: «Capirai, da quando hai aperto la partita Iva potrebbe essere qualsiasi cosa».
Ho iniziato a curarmi da sei mesi, che vuol dire che da sei mesi è cambiato il mio modo di vivere il cibo, la socialità, la geografia della città in cui vivo, l’interazione con il prossimo che, troppo spesso, pensa che io abbia un disturbo alimentare, una fissazione, non una malattia. Mi sono iscritta all’Associazione italiana celiachia (Aic), ho comprato il libro di ricette di Mary Di Gioia, ho iniziato a seguire su Instagram Valentina Leporati e altre influencer celiache, ho panificato, iniziato a studiare la cucina giapponese e mangiato molte empanadas da El Maiz, a Roma; ma comunque il glutine mi manca. Lo vedo ovunque, ne parlo sempre, nei momenti peggiori mi fermo davanti alle pizzerie e lo guardo con desiderio: lo vorrei ancora baciare.
Nella guida pratica alla celiachia dell’Aic, tra le FAQ, ce n’è una sui baci. Il bacio può essere un problema per una persona celiaca? E la risposta è no: le persone celiache possono baciare il partner anche se ha mangiato glutine. «Basta il buon senso», dice l’opuscolo. Ma comunque io, certe volte, quando bacio il mio fidanzato dopo che ha mangiato un cornetto, una bruschetta o un cheeseburger, mi dimentico il buon senso e immagino di baciare anche un po’ lui, il glutine, per dirgli che comunque, nonostante tutto quello che mi ha fatto, gli voglio ancora bene. —