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 2023  agosto 22 Martedì calendario

Innamorarsi dopo gli anta

È in un volume di poesia uscito all’inizio di quest’anno, dal provocatorio titolo L’amore da vecchia (Mondadori, pagg. 160, euro 18) che si trova, a firma di Vivian Lamarque, una delle riflessioni più interessanti su quel processo che, tra vergogna del reale e politicamente corretto, si è preso a chiamare «ageing» e che un tempo si chiamava appunto invecchiamento e su cosa ne accada a quell’età dell’amore.
«Tutti dimenticati?» si chiede in uno dei poemetti di apertura la Lamarque a proposito degli amori giovanili, i fidanzati: «No, i loro nomi ho ancora dentro bene/ incisi, ma come per nebbia/ confondo un poco rami e mani, colore/ delle foglie e dei capelli». La memoria che non torna e non fa tornare i conti è un gran disagio, a una certa età, ma se ci si ricorda almeno d’esser nati e non di essere morti, ecco che la vita che resta assume tutt’altro significato che il piagnisteo: Lamarque prosegue con ironiche quanto toccanti consolazioni su incontri oltremondani, sull’immaginazione «quasi uguale all’uguale» e sull’innamorarsi di un nome, e al lettore resta da chiedersi se l’amore possa trovare, anche passato il «mezzo del cammin», una sua verosimile strada romantica, oltre che di incanto poetico o ancor più di «ringiovanimento sessuale», come è ormai tendenza.
Risponde un’autrice impavida, che infatti al suo quasi esordio (aveva all’attivo sino ad allora un libro di racconti, Enti di ragione, editore Sui generis) si è ritrovata quest’anno in cinquina al Premio Campiello: Marta Cai, piemontese di Canelli, con il suo Centomilioni (Einaudi, pagg. 144, euro 14,50). Impavida perché al comando del suo romanzo breve ha messo una quarantasettenne innamorata, alla faccia dell’ageing, appunto, ma anche di quel guardare alle donne in quel modo sterilmente programmatico cui ci stanno abituando le polemiche da «cancel culture». In un linguaggio strepitoso, in cui il diario diventa romanzesco e alla modalità di narrazione tradizionale tocca rendere giustizia della pressione sociale sulla protagonista, Teresa detta Tére, «Niente prof, chiamatemi professoressa», la Cai fornisce a quella che poteva essere la prevedibile figura di una signora di provincia (o, come si definisce lei stessa, «Una zitellona di provincia, una signorina senza qualità» che «anni di esperienza con genitori che non camminano hanno reso pratica di parcheggi, basta che siano vicini a dove devono andare, di solito ospedali, dove è molto difficile lasciare l’auto») tartassata nello spirito e nel corpo dalla madre e dall’ambiente, una personalità indimenticabile e soprattutto un amore, un amore completo, maturo, tanto più indecoroso e tardivo quanto più leggendario. L’amore per Alessandro: giovane, povero, bellissimo, suo ex studente.
«Finirò come la Drugia, impazzita per amore, rovinata da un disgraziato senza arte né parte... Che bello, una santa d’amore, priva degli organi per odiare, mummificata nel desiderio di ciò che non ha, anzi di ciò che è sbagliato e dannoso, statua venerabile già in vita. Meglio amare che essere amata? E come mai sarà essere amata? Chi ti ama ti divora e io voglio darmi per intero, così non potrà essermi sottratto nulla». Se c’è una cosa che si può imparare dal romanzo di esordio di Marta Cai è proprio che l’età non è tutto perché il corpo non è tutto. E allora benvenuto amore a cinquant’anni, ma che amore sia «più indissolubile del matrimonio», pronto anche ad accettare che la mente si accozzi di nuovo allo scoglio della solitudine patologica, se questa consente di sognare meglio all’ombra di quei portici di collina.
«Un personaggio come questo non è molto frequente in letteratura perché è il meno interessante che ci possa essere», ci spiega la Cai. «Ha una vita come quella delle sogliole, vive sul fondale mentre persino i suoi coetanei sono sulla terraferma, quindi è quasi invisibile. Però nella realtà è molto frequente, almeno in certi ambienti come le cittadine di provincia del Nord Italia, che poi sono gli ambienti che conosco». Eppure Teresa non è soltanto una provinciale che si scopre vulcanica e un poco allucinata, ma anche una donna che sperimenta un terremoto carsico nel cuore della maturità, fenomeno infrequente nella letteratura, soprattutto italiana: «Tempo fa ogni tanto andavo dall’analista», prosegue la Cai, «e non ricordo perché, gli dissi: Ma guarda le favole: peripezie, avventure, magie e poi si sposano e finisce la vita, finisce tutto. È come se ci fossero sempre solo romanzi di formazione, dove comunque al massimo arriviamo ai trenta. Ma poi che cosa succede? Forse non grandi avventure, ma di certo molti cambiamenti: io sono cambiata di più dopo i quaranta che non dai 17 ai 25».
Innamorarsi di brutto e provare così ad essere sé stessi alla faccia di una fragilità che alla fine non è dei vecchi, ma di tutti, come bene dimostra Fuani Marino in Vecchiaccia (Einaudi, pagg. 160, euro 17), pamphlet nato per difendersi da chi l’ha accusata di detestare i vecchi e cresciuto come espressione di un disagio psichico che spesso con il corpo invecchiato ha solo alcune forme di lontana parentela. Innamorarsi e rischiare alla faccia dell’ageing, insomma, ma anche di quelli che, nella speranza di esorcizzarlo, questo invecchiamento, ne vorrebbero parlare come fosse un movimento collettivo e non un sentimento diverso in ognuno, come accade ad esempio in Age pride di Lidia Ravera (Einaudi, pagg. 112, euro 13), che se con intento più che meritevole ci invita a non nasconderci al tempo che passa, si lancia anche alla rincorsa di modelli che lei stessa definisce «scaduti», ma con i quali continua a confrontarsi: «Peccato che le persone nate fra il 1946 e il 1964, meglio note come baby boomer, di essere vecchie, o quasi vecchie, si vergognino... Parlo delle donne, innanzitutto. Il passo del tempo che avanza implacabile spaventa soprattutto loro, noi... Siamo così fragili noi donne di fronte alla perdita della bellezza». Leggendo queste parole si ha la sensazione che la Ravera si sia persa una rivoluzione già avvenuta: le donne boomer, e pure alcune silver, sanno da un pezzo che all’età si guarda in modo relativo, e leggono longevità come sinonimo di possibilità e trasformazione, più che di fragilità e sconfitta.