Corriere della Sera, 22 agosto 2023
I veri playboy. Da Rizzi a Zanza: quei miti (quasi) scomparsi
Venivano da mondi diversi e diverso era lo stile, la classe e l’eleganza, ma se c’è qualcosa che li accomuna oltre al fatto di piacere alle donne e di scambiare la notte con il giorno, è l’uso di una parola superata, quasi del tutto in disuso, triturata dal femminismo e dal Me Too: playboy. Se Zanza da Rimini ne è la parodia nostrana, popolar romagnola, il modello che contabilizza come un flipper le conquiste e diventa, a detta della madre, «un richiamo turistico nelle spiagge dell’Adriatico» per le bellezze nordiche degli anni Ottanta, fino allo schianto nell’ultimo fatale rendez-vous, a 63 anni, nel letto con una ventitreenne, un altro è stato in Italia il titolare per antonomasia del marchio, il prototipo del seduttore che negli anni Sessanta era chiamato anche tombeur des femmes : Gigi Rizzi, uno con le stimmate dell’impresa galante e non dell’arrembaggio alle turiste per caso, tardivo e fuggevole eroe di una generazione uscita dalla guerra, ha scritto Massimo Fini, che il suo ’68 l’ha vissuto senza molotov o barricate nell’estate godereccia di Saint Tropez, alzando il tricolore sulla Madrague, la villa della più bella e desiderata donna del mondo: Brigitte Bardot.
Il sostegno di Gianni Agnelli
Nel secolo scorso playboy era un titolo impegnativo e non ancora politicamente scorretto. Quelli veri erano pochi e con caratteristiche diverse da uno come Zanza, che mai sarebbe stato ammesso nel gruppo d’assalto in Costa Azzurra, «les italiens», Rizzi, Piroddi, Rapetti e Parisi, il quartetto più ambito dal Papagayo all’Esquinade, tappe obbligate dei viveurs di tutto il mondo: non solo per il nome, ma per lo stile che vietava di mettere in piazza «la contabilità delle mutande sfilate»: loro le conquiste non le contavano, le pesavano. Solo così potevano vantare il sostegno di Gianni Agnelli, che del riserbo faceva un codice d’onore: l’Avvocato ogni tanto si univa al quartetto che spopolava sulla Croisette e domandava all’invidiatissimo Gigi: «Caro, che c’è di pepato stasera...».
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Le «scuole» e gli stili di conquista
Se a Zanza dedicheranno una targa, servirebbe un albo alla memoria per quanti, come Gigi Rizzi, hanno intaccato con giovanile esuberanza il mito di Porfirio Rubirosa rilanciando quello, made in Italy, dell’ineguagliabile Rodolfo Valentino. Non erano tanti e si dividevano in piccole squadre, i milanesi, i genovesi e i romani, ricchissimi i primi, scatenati i secondi, fascinosi i terzi. Maestro di cerimonie era Gianfranco Piacentini, flirt con Dahlia Lavy e poi con Linda Christian, ma il vuoto nella capitale lo faceva Renato Speziali detto «il nibbio» seguito da Federico Pantanella, Francesco Bonetti, Paolo Vassallo, Beppe Ercole... L’aura di nobiltà la portavano il marchese Lante della Rovere che alle cene eleganti stupiva tutti, dicono, addentando i bicchieri di cristallo, e Dado Ruspoli, che a Capri si esibiva con la bandana e un pappagallo sulla spalla...
I locali giusti
Milano era la scuola più selettiva: negli anni Sessanta la città del boom, dei cumenda e del lavoro aveva in Brera e nel caraibico Giamaica il luogo simbolico da onorare e i playboy navigavano tra Cova e il Baretto, prima del tuffo al Bang Bang o al Charlie Max, dove suonava Augusto Righetti. Mina era la voce nuova, la Vanoni quella sensuale, il regno del cheek to cheek era lo Stork di piazza Diaz, amato da quelli della vecchia guardia come Gigi Perez. I playboy si chiamavano Cesare e Marco Spadaccini, che viaggiavano in Miura o in Ferrari, grande successo riscuoteva il gioielliere surfista Pederzani, new entry era un politico di destra, il barone nero Tomaso Staiti di Cuddia, che vantava cultura e storie galanti con Rosa Fumetto, Marisa Allasio e Capucine. Da Genova a Milano si erano trasferiti anche Rizzi e Beppe Piroddi, dopo le precoci incursioni al Carillon di Portofino e al Pirate di Cap Martin: avevano il tavolo fisso tra le modelle alla Torre di Pisa dove ogni tanto si affacciava anche un giovane Silvio Berlusconi («ma non era ammesso», ricorderà perfidamente il barone Staiti).
Gigi Rizzi e la storia d’amore con BB
A ventidue anni Gigi Rizzi era già un top di gamma, accoppiato a bellezze che pietrificavano: Patrizia Gallieni, Anna Mucci, Isa Stoppi, la modella che il fotografo Avedon definì più bella del modo, «con due laghi al posto degli occhi»... Nel ’67 inaugurò con Piroddi il Number One, con i primi disc jokey e il giovane Teo Teocoli ad aprire le danze. A Parigi aveva il lasciapassare da Regine Zilberger, la signora del New Jimmi’s, dove fece il debutto in compagnia di Natalie Delon: ai tavoli accanto a lui c’erano Aristotele Onassis con la Callas e Porfirio Rubirosa con Odile Rodin. Se andava a Londra le tappe erano Annabel’s e il Dolly’s: serate con Polansky e Sharon Tate, compagna del momento Fiona Lewis, mentre Piroddi stava con Jaqueline Bisset. Poi tra un Cristal e un Dom Perignon il giovanotto si giocava una fortuna nelle infernali puntate di chemin de fer.
Regine di bellezza
Com’era e cos’era la vita da playboy è possibile che qualcuno ancora lo ricordi, da Liuba Rizzoli a Marisa Berenson, monumenti di bellezza insieme a Elsa Martinelli, una delle regine di Saint Tropez. Di sicuro il fascino, l’esibizionismo, il narcisismo, la folle illusione che tutto fosse possibile per Gigi Rizzi toccò la vetta una sera di giugno, in quel ‘68 che annunciava la fine di un’epoca.
L’uomo più invidiato del mondo
La love story con Brigitte Bardot fu qualcosa di pazzesco, una bomba: un giovane italiano si sostituiva a Gunther Sachs, playboy miliardario erede della dinastia Von Opel, l’uomo che lanciava rose rosse dall’elicottero per annunciare alla Bardot il suo arrivo. Gigi ballava il flamenco sul tavolo con sfacciata esuberanza, girava a piedi nudi, giocava con le carte e con le donne. Quando la Bardot lo invitò alla Madrague e mandò una Rolls Royce nel suo albergo a ritirare gli abiti di ricambio, aveva appena 24 anni. Per tre mesi diventò l’uomo più invidiato del mondo.
Tra vizi, fragilità ed errori
«È stato detto che Gigi è sempre e solo l’ex di Brigitte», ha scritto Olghina di Robilant, musa dolcevitiera di quel gruppo. «La deformazione giornalistica va capovolta. Direi che la Bardot fu solo una ex di Gigi. Una fra tante, famose quanto lei...». La sua storia, diversamente da quella di Zanza, è una metafora sulla vita e anche sul destino del playboy. Rivela vizi, fragilità, errori, il senso dell’onnipotenza e del vuoto, che finisce spesso in solitudini da affogare nell’alcol o nella cocaina: Gigi Rizzi ha avuto tutto, ha perso tutto, si è eclissato, ha cercato di cambiar vita, si è riconvertito agricoltore in Argentina, si è sposato e risposato, è caduto ed è riemerso, è stato in una comunità per tossici e alcolisti e non si è vergognato di dirlo.
Quell’ombra dentro
Quando è tornato in Italia, a sessant’anni, sembrava un naufrago sopravvissuto al disastro del Titanic. Non ha mai pensato a una targa che glorificasse una vita che considerava gagliarda, ma sbagliata. Era un buono, dolce, galante, simpatico, affascinante, capace di commuoversi, ma si portava dietro un’ombra che lo inseguiva. E non solo la Bardot o Veruska, l’ultima love story. Inconsciamente avrebbe voluto ammazzare il vecchio playboy sostituendolo con l’altro sé stesso, per stare in pace con i suoi figli o l’ultima moglie, ma era costretto a interpretare una parte che non amava più.
Game over
Dieci anni fa è morto durante la sua festa di compleanno, proprio a Saint Tropez, dove tutto era cominciato. Quasi un segno del destino. Di quel quartetto che si onorava del titolo di «les italiens» non è rimasto nessuno. Game over, anche per i playboy. Oggi contano gli influencer. Forse aveva ragione Franco Califano: se ti volti indietro, tutto il resto è noia.