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 2023  agosto 21 Lunedì calendario

Ascesa e caduta di Rudy Giuliani

Una storia universale è quella di Rudy Giuliani. Una tragicommedia, scritta da un ironico Shakespeare. Ascesa e caduta, meccanismo perfetto, in forma circolare: l’uomo che mandava tutti in galera a un passo dal finirci, alla soglia degli ottant’anni, della bancarotta e oltre quella del ridicolo. Come molti non ha saputo limitare le proprie ambizioni al ruolo che gli era toccato in sorte, guardarsi dagli amici e soprattutto dall’adulazione mediatica e popolare, spesso basata su un equivoco.Chi non ha conosciuto la New York degli Anni Novanta non può capire che cosa sia stato quest’uomo oggi isterico, ingrassato, con la tintura per capelli colata sulla fronte, ripreso in una stanza d’albergo mentre flirta e poi annaspa nei pantaloni davanti a una presunta figlia di Borat o mentre tiene una conferenza stampa nel parcheggio di un negozio (tra un crematorio e un pornoshop) scambiato causa omonimia per un hotel di lusso. Chi invece l’ha conosciuta intuisce un tratto, un destino, il senso di una fine. Come i dittatori arabi giurano di vivere con la spada e morire con la spada ma finiscono per farsi ripescare da un buco nella terra, così Rudy Giuliani che voleva vivere per la legge (speciale) e rischia di morire in carcere per la legge (speciale) finirà per patteggiare, collaborare, implicare, mettendo nei guai il suo capoclan, l’uomo di cui voleva essere il burattinaio e che l’ha invece abbandonato sulla scena, giacché nessuno manovra Donald Trump, semmai l’opposto.
Per capire la sorte di Giuliani si può ricorrere a molti esempi in scala, con base in Italia. È stato celebrato (qualche volta a ragione, spesso a torto) come uomo di legge, d’azione, di governo. Magistrato, avvocato, sindaco. Quando cerca di fare il salto, candidandosi alla presidenza nel 2008, cade nel vuoto. Immaginate un mix di Antonio Di Pietro, Guido Bertolaso e Leoluca Orlando. Prendete il sole che per un certo periodo hanno avuto in tasca, il fulgore in una procura, una città, un’organizzazione governativa, il favore dei media e, quindi, dell’opinione pubblica. Ritornate all’attimo fuggente in cui tutto questo sembra preludere al volo, alla leadership e poi non accade. L’ala e la pagina si ripiegano. Si viene consegnati alla memoria come procuratore, sindaco, uomo dell’emergenza. Potrebbe bastare, per una vita che non ha sognato sé stessa all’ennesima potenza. Giuliani ha avuto anni di adulazione, il suo mito è stato trasportato nel mondo dal 1994 al 2001, prima come sindaco della “tolleranza zero” poi come padre della comunità ferita dall’attacco dell’11 settembre. Che volesse farsene padrone cancellando la successiva elezione per restare in carica è il preludio della posizione sul voto del 2020 che ora lo ha inguaiato.
Per ulteriore paradosso a lui stesso può applicarsi la teoria sociologica su cui si è basato, quella delle finestre rotte. Sostiene che se in un palazzo c’è una finestra con il vetro spaccato e non viene riparata, presto ce ne sarà una seconda e poi tutto l’edificio andrà in malora. Esattamente quel che è accaduto a lui. Farla franca non è sempre una fortuna, non nel lungo periodo. Era una leggenda, il “sindaco d’America”. Venivano per studiarlo o ricavarne una foto ricordo. Lo fece Rutelli da Roma, che lo incontrò pubblicamente in una boutique Fendi. Lo fece Albertini da Milano, che per andare da lui prese la metropolitana, molto preoccupato. Una domenica di febbraio del ’99 arrivò una delegazione dell’allora Alleanza nazionale e scese all’Hilton. I partecipanti scoprirono con disappunto che i locali dove speravano di trascorrere momenti lieti erano stati chiusi proprio da Giuliani. Nella notte morì a Torino Giuseppe Tatarella e dovettero fare dietrofront. S’andava a vedere Rudy come Lion King. Si portava come souvenir una promessa: l’importazione della tolleranza zero. Verrà adesso applicata per lui?
Con l’11 settembre, mentre sembrava salire sulla vetta, il suo mondo è crollato. L’anno dopo ha divorziato dalla seconda moglie, Donna Hannover, la sola custode del suo temperamento e con cui condivideva un’attrazione che è stato fatale sciogliere. Non ha mai capito perché il partito repubblicano e la sua gente, alle primarie nel 2007, lo abbiano respinto. Come, in effetti, abbiano potuto considerarlo troppo libertario: lui. O troppo autoritario: non è quel che cercano, loro? Si è depresso. Ha cominciato a bere. Ha fatto investimenti sbagliati. Scelte sbagliate. La più grande: buttarsi su Donald Trump. Bisogna riavvolgere il nastro della cronaca: quando Rudy era il re di New York Donald era ancora un figlio di papà (il padre muore nel 1999), divorziava da Ivana, gestiva (male) casinò, concorsi di bellezza e aveva cercato (senza successo) di importare il ciclismo in America (organizzando il Tour de Trump). Venne ricevuto dal sindaco di rado e con sufficienza. Quasi vent’anni dopo Giuliani in cerca di rivincita lo sceglie come un underdog (lui sì) pensando di poterlo tenere al guinzaglio. Riuscite a immaginare che qualcuno possa aver fatto lo stesso con Silvio Berlusconi? L’avvocato che offre i servizi diventa un servitore. Il suo compito è trovare la giustificazione legale di ogni azione, si tratti del rilascio di una ragazza in questura, di una evasione fiscale o del tentativo di sovvertire l’esito di una votazione. Nella logica del despota il servitore si assume una obbligazione di risultato, non di mezzi, quindi è pagato se ottiene lo scopo prefisso. Per questo Trump non salda le parcelle di Giuliani: non è riuscito a fargli annullare la vittoria di Biden. E per questo l’altro si umilia andando nel suo resort in Florida a chiedere soldi, strepitando ancora in suo favore nello show in streaming seguito da poche centinaia di persone. Questo è il vero contrappasso, più ancora che finire in cella con i mafiosi e i corrotti che fece arrestare: aver peccato di hybris con chi la impersona, dimenticando il motto «non si bara con i bari». Nell’accompagnarlo all’ultimo atto, a noi tutti che raccontiamo la storia in divenire Giuliani consegna il monito di non farci abbagliare dal momento.