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 2023  agosto 21 Lunedì calendario

Vedi Napoli e poi mangiala

Il miglior modo per conoscere Napoli è mangiarla. Facendosi guidare da quegli avamposti sensoriali dell’identità che sono i sapori e gli odori. E per non perdersi nulla del labirinto gustativo di Partenope bisogna partire da Spaccanapoli. Che non è una semplice strada. Ma una faglia della storia che apre letteralmente in due il corpo della città antica, come un canyon urbano sprofondato tra altissimi palazzi nobiliari. Lo scrittore francese Michel Leiris diceva che da queste parti è difficile farsi largo nella ressa delle ombre. Si viene quasi risucchiati indietro nel tempo fino alla chiesa seicentesca di San Gregorio Armeno dove il sacro si declina al femminile. Qui le monache custodiscono l’ampolla del sangue di santa Patrizia che si scioglie tutte le settimane. Altro che le tre volte l’anno di San Gennaro.
In questo dedalo di vicoli angioini, angiporti aragonesi, archivolti durazzeschi e fondaci ispanici tutto è annerito dal tempo. Qui il mare non bagna Napoli. E il sole non riesce a oltrepassare la linea d’ombra che divide impietosamente i piani nobili inondati di luce dai “bassi”, gli anditi bui dove il popolo ha sempre incubato la sua esistenza amniotica. E dove la pizza assicura da sempre il minimo vitale. In questo quadrilatero ippodameo, tra cardini e decumani, regnano da sempre dinastie di pizzaioli, che una volta garantivano la sussistenza del popolo, mentre oggi gratificano la gourmandise dei turisti. Che si mettono religiosamente in fila per sedersi ai tavoli dei maestri della margherita. Si mangia in pochi minuti perché a dispetto degli stereotipi Napoli è una città che va di fretta. Sciuè sciuè.
A due passi dalle pizzerie storiche ci sono i templi della sfogliatella e del babà. E i sancta sanctorum del caffè, come quello di piazzetta Nilo, di fronte alla maestosa statua del dio egizio adagiato mollemente sul fianco come un eunuco alessandrino. Questo idolo impassibile osserva da secoli il fiume di folla che scorre ai suoi piedi e ora guarda compiaciuto l’effetto che fa il capello di Maradona conservato in un altarino votivo come una santa reliquia. Insomma, l’antico nume spia il nuovo idolo. Che giganteggia come un colosso sul murale dei Quartieri Spagnoli, dopo lo scudetto il monumento più visitato della città.
Napoli è decisamente un luogo di compresenze, dove il tempo e lo spazio sono egualmente zippati. Sovrapposti, contrapposti, giustapposti, affastellati, impilati in una promiscuità misteriosa e rumorosa. I decibel sono sempre altissimi. È tutto un tintinnio, un risciacquio, un gocciolio di piatti, tazzine e cucchiaini, come in una poesia di Palazzeschi, clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchete, chchch. Ma questo fragore e clangore viene considerato parte del paesaggio sonoro, un soundtrack fatto di consonanze e dissonanze. Che un grande musicista come Hans-Werner Henze considerava un arabescato tappeto di frequenze, voci, modulazioni, gridi arrivati direttamente dai greci, dai mori, dagli spagnoli, che si fondono,si confondono, si giustappongono, si contrappongono. E sicontrappuntano.
In via Tribunali, l’antico decumano maggiore, il soprannaturale è di casa. E tracima sulla strada dalla teatralissima chiesa del Purgatorio ad Arco. Due teschi di bronzo che montano la guardia ai lati delle scale d’ingresso come sentinelle della tenebra, avvertono che appena entrati, sotto i nostri piedi si spalancheranno le porte dell’Ade. Il teschio di corallo con le orecchie appuntite di Jan Fabre ci fauna riverenza, poi si scende una lunga scala fino a un ipogeo popolato di crani anonimi. Sono le cosiddette anime pezzentelle, i poveri dell’aldilà che la pietà popolare ha trasformato in santi. La più venerata è la testa di Lucia, conosciuta anche come la principessa. Si dice che appaia in sogno il lunedì, il giorno delle antiche dee lunari, ad annunciare le sue grazie. Non si fa in tempo a risalire da questi Inferi pop che si è di nuovo sparati nell’oceano di folla variopinta e vociante. Ma bastano pochi passi per venire risucchiati dal mistero iniziatico della cappella Sansevero, costruita nel Settecento dal principe Raimondo di Sangro, alchimista, mago e negromante. Che commissionò allo scultore Giuseppe Sammartino la miracolosa statua del Cristo velato. Sembra che il marmo si sia sciolto per trasformarsi nel velo che copre Gesù deposto dalla croce, così sottile da rivelare prodigiosamente quel corpo che dovrebbe nascondere. In questa penombra esoterica la religione diventa enigma e teatro, inganno e disinganno, estetica ed estatica. Cioè i principi primi dello spirito barocco, che da queste parti non è mai stato congedato. Ed è passato dalle tavolozze alle tavole, dai presepi e dalle nature morte seicentesche traboccanti di cibi, alle valanghe di ghiottonerie che precipitano dai banchi dei negozi, come monti di cuccagna, incombenti, pericolanti e periclitanti.
Il fuoco di questa ellissi artistica, gastronomica e teologica, è piazza San Domenico Maggiore. Cinque secoli in pochi metri. Qui, nel glorioso convento dei domenicani, insegnarono San Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. E a due passi c’è la chiesa del Pio Monte, dove si trovano le Opere di Misericordia di Caravaggio. Un visionario intreccio di sacro e profano, di angeli e donne di strada, di osti avidi e di poveri cristi da cui affiora l’anima di questa metropoli mediterranea. Più classicamente antica di Roma, e insieme spagnolesca e orientale. Decisamente Napoli non è una Disneyland della storia. Qui il bello ti folgora all’improvviso, come un lampo di verità nuda, scandalosa e luminosa.
Il lungomare da qualche anno è diventato una passeggiata gastronomica. Si serve dieta mediterranea per tutte le tasche. Pizze, spaghetti ai frutti di mare, zeppoline, alici fritte, street food. Verdure ripassate, saltate, ‘mbuttunate (imbottite), parmigianizzate. Nelle mani dei vesuviani melanzane e peperoni, zucchine e carciofi, friarielli (cime di rape) e ciurilli (fiori di zucca), trascendono il loro umile corpo vegetale e volano trionfalmente nell’empireo della gastronomia. Perché, per questo popolo refrattario all’idea del peccato, il piacere è un dovere.