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 2023  agosto 21 Lunedì calendario

Biografia di Luca Miniero raccontata da lui stesso

Luca Miniero, detto «miniero d’oro» da quando il suo «Benvenuti al Sud» sbancò i botteghini: quando non fa film, che cosa le piace fare?
«Mi piacerebbe dire, come diceva Marcello Mastroianni, che sto steso sul divano in uno stato catatonico. È così, non ho tanti hobby: quando non giro, sto sul divano, ma scrivo. Scrivere mi dà piacere, non è che avrei piacere di andare a cavallo o in barca».
Esiste una forma di pigrizia creativa prettamente napoletana?
«Non lo so, non è che sto fermo e dovrei fare cose che non faccio. Io più che pigro, seleziono le cose da non fare: non pulisco mai casa; non ho la macchina, preferisco il taxi; ho sempre il frigo vuoto, se no dovrei fare la spesa, ce l’avevo vuoto pure quando ero povero ma mangiavo fuori, rovinandomi lo stomaco. Io sono paralitico, non pigro».
Al cinema, nessuno come lei ha raccontato le differenze fra Nord e Sud Italia. Com’era fatto il Sud in cui è nato?
«Di quartieri piccoli borghesi, quelli del sacco di Napoli raccontati da Francesco Rosi nelle «Mani sulla città». Il mio era l’Arenella, che però quelli di Arenella chiamano Vomero, sebbene sia molto più popolare del Vomero. I miei genitori, mamma che lavorava alla Sip, papà al Comune, ci erano venuti negli anni ’60 dalle parti basse della città. Erano “sagliuti” da Porta Capuana: avevano fatto la scalata sociale. E mentre mio papà non aveva cambiato stile di vita e continuava ad appendere meloni sul balcone, mia madre era “più sagliuta”, anche perché aveva studiato di più. Eravamo tre fratelli, io ero ragazzo negli anni ‘80 e ricordo una Napoli molto violenta, la presenza della camorra si sentiva. Diciamo che i nostri anni ’80 sono stati più faticosi di quelli dei paninari di Milano».
E lei come finisce a Milano subito dopo la laurea?
«Perché all’università era venuto a parlare un copywriter e così scoprii che esisteva questo lavoro nella pubblicità. Andare a Milano fu come essere deportato: coi treni diversi dagli attuali, era una città molto lontana. Arrivai non con la valigia di cartone, ma con un taccuino che mi servì per specializzarmi in colloqui. Ne feci più di 80 in piccole agenzie. Segnavo tutto: domande, risposte e, se mi dicevano “richiama fra un mese o fra tre mesi”, davvero richiamavo».
Ha fatto in tempo a conoscere la Milano da bere?
«Da bere c’era poco e anche da mangiare. Era una Milano in crisi, che licenziava, trovare lavoro era difficile. Cominciai scrivendo etichette di shampoo e di detersivi. Sembra facile ma era complicatissimo: non puoi dire che un prodotto è fatto di un certo ingrediente perché ce n’è l’un per cento, non puoi dire che fa bene a qualcosa se non è scientificamente provato... Poi, passai agli spot e, quindi, realizzai il sogno di un contratto vero in un’agenzia importante».
Il «posto fisso», finalmente?
«Ci tenevano di più i miei genitori. Io, quando le cose diventano stabili, scappo. Infatti, il posto fisso lo lasciai molto presto: non amavo particolarmente Milano, c’ero stato quattro anni, ricordo una città fredda, la mia casa era triste: guardava il cimitero monumentale, che non era ancora dentro un quartiere cool come oggi. Tornai a Napoli, facevo colloqui a Roma, mi presero in un’altra agenzia importante. Vinsi parecchi premi, anche uno a Cannes. Cominciai a fare i corti e da lì è arrivato il cinema».
Prima, non aveva pensato di diventare regista?
«Ai tempi, non disponevamo di tutte le informazioni che ci sono oggi. Non sapevo neanche che esistesse una scuola di cinematografia. A fare il regista mi ci sono trovato e la certezza di farlo l’ho avuta solo dopo Benvenuti al Sud».
Primo corto nel 1999: «Piccole cose di valore non quantificabile», regia sua e di Paolo Genovese.
«Era la storia di un brigadiere dei carabinieri che registrava la curiosa denuncia di una ragazza, la quale sosteneva di essere stata derubata di tutti i suoi sogni. Con Paolo, ci eravamo conosciuti a Roma lavorando in McCann Erickson: era nata una grandissima amicizia diventata un sodalizio durato anni. Potevamo tutto perché eravamo amici, ci vedevamo da mattina a sera, immersi in un’atmosfera di risate e senza tensioni. Quando trovi un compagno di lavoro così, per quanto abbia un senso dell’umorismo diverso dal tuo, puoi fare grandi cose. Il cinema iniziò per gioco, con tutta una storia legata a «Incantesimo napoletano», complicata da spiegare».
Faccia uno sforzo.
«Era il primo racconto che scrissi, mentre facevo su e giù fra Napoli e Milano per motivi non di lavoro, ma di ricerca di lavoro. Ai tempi, le differenze fra Nord e Sud erano davvero tante e mi venne in mente la storia di una famiglia col culto della napoletanità a cui nasce una figlia che parla milanese, sogna di aprire una fabbrichetta e ama il panettone invece della pastiera. Io e Paolo, però, non avevamo soldi per girarlo, ma un nostro amico, Tonino Risuleo, aveva girato un corto con delle immagini di pescatori che ci piacevano e che pensammo di rubare e doppiare. Vincemmo un premio al Festival di Locarno, Tonino ci fu pure molto grato, e il premio ci consentì di girare il primo corto vero, quello sulla ragazza derubata dei suoi sogni».
E da «Incantesimo napoletano» nacque anche il primo, omonimo, film, nel 2002.
«Marina Gonfalone, che interpretava la mamma, vinse il David di Donatello. Fu un progetto molto fortunato. Poi il film uscì su Prime, la gente se lo ricorda, io ci sono molto affezionato».
Con Genovese ha firmato anche «Nessun messaggio in segreteria» e «Questa notte è ancora nostra». Perché dopo il 2008 vi siete separati?
Il cinema iniziò per gioco
«Non c’è stato un momento in cui lo abbiamo deciso, è stato un allontanamento graduale. Lui andava verso la commedia sentimentale, io più verso il comico, ma non c’è mai stato un conflitto, anche perché litigare con lui è impossibile. Fra noi è finita come in una storia d’amore: non ti ricordi mai perché ti lasci con una persona».
Il primo film da solo fu «Benvenuti al Sud», trenta milioni di incassi, come si spiega quel successo?
«Era un momento in cui c’era la Lega secessionista, Umberto Bossi aveva appena detto che SPQR stava per “sono porci questi romani”. E perché funzionano i luoghi comuni estremizzati: Claudio Bisio che va a Castellabate col giubbotto antiproiettile mostrava chiaramente il pregiudizio di chi vedeva il Sud come un’indistinta Bagdad. È come quando Totò va a Milano col colbacco e si meraviglia che non c’è la nebbia».
Altri luoghi comuni fra quel film e «Benvenuti al Nord»?
«Mi interessano quelli legati alla socialità, al fatto che i milanesi non ti accompagnano a casa, ma alla metro o che i napoletani ti obbligano a prendere caffè, se no si offendono. Poi, il luogo comune ti porta a pensare che ci restano male per tutto il giorno. Oggi, però, le differenze si sono ammorbidite: ora, il confronto è più fra il centro e la periferia».
Un «Benvenuti a Roma» è immaginabile?
«Non più, perché tutti si muovono fra Milano e Roma, ma un terzo episodio potrebbe trovare una sua attualità lavorando sui politici: in tempi di smartworking, gli ultimi pendolari sono loro».
Quando la nuova destra ha vinto le elezioni, cosa le è venuto in mente di «Sono tornato», il film in cui Benito Mussolini si risveglia nell’Italia di oggi?
«Quel film era girato come un documentario, ma nelle scene in cui il duce passa per strada e le persone gli fanno il saluto romano non vedo un Paese fascista, vedo persone che scherzano con un attore e un quadro in cui il giudizio su Mussolini è quasi bonario. Mentre è facile dire che Adolf Hitler era il demonio, da noi, Mussolini era un demonio e la gente non lo sa. In ogni caso, oggi, non ha senso parlare di fascismo, oggi conta dire se sei contro gli immigrati o no... L’errore della sinistra, invece, è usare etichette».
Coi dovuti distinguo, avrebbe senso, più in là, un «Sono tornato» su Silvio Berlusconi?
«Quando saranno passati 40 anni, mi candido».
Perché piace così tanto la sua serie Rai Le indagini di Lolita Lobosco?
«Perché il vicequestore Lobosco è un altro personaggio del Sud che va al di là dei luoghi comuni. È una di noi, non molla mai. È brava su lavoro, ma non risolta nei sentimenti, vive un conflitto fra sposarsi o no, avere o no una famiglia».
Lei una famiglia ce l’ha, ma non ne parla mai.
«Ho una compagna da sempre, un’economista che insegna a Firenze e che ha un figlio di 28 anni, mentre insieme abbiamo una figlia di 23, Vera, che studia sceneggiatura».
Con tanti film comici all’attivo, è stato un papà simpatico?
«Non dovrei dirlo io, ma penso di sì. Sono stato molto assente nella prima parte della vita, quando i treni andavano più piano, ma alla fine è andata bene».
Da quanto tempo non va a Napoli?
«Ci ho appena girato un documentario che forse porto a Venezia. È sulla tragedia di Melarancio del 1983: undici bimbi morti in gita. Ho incontrato le persone 40 anni dopo, ho toccato il senso di colpa dei sopravvissuti. E a breve, girerò il film per Raidue «Napoli milionaria», con Vanessa Scalera e con Massimiliano Gallo che ha la parte che fu di Eduardo De Filippo. Questo è il suo testo più poetico e il tema dell’avidità e dell’arricchimento lo rende molto attuale».
Cosa le piace e cosa no dell’Italia anno 2023?
«Mi piacciono i posti, le persone. Siamo usciti dalla lebbra e vedo la foto di un Paese che non sta andando malissimo, anche se deve fare di meglio e i giovani non dovrebbero fare 80 colloqui per lavorare. Detto questo, mi piace ancora raccontare l’Italia. Purché lei non titoli: l’Italia è il Paese che amo».