Corriere della Sera, 21 agosto 2023
Beppe Severgnini racconta il cantante e i versi di Mogol
In soffitta ho creato il Museo del Passato Prossimo, per il divertimento della famiglia, convinta che questo sia un segno di eccentricità senile. In cosa consiste la mia collezione? Nell’accumulo, su una scaffalatura lunga quanto la parete, della tecnologia che normalmente la gente butta via. Il cassettone della nonna si tiene (non sempre, non tutti). Il mangiadischi, il registratore a cassette, lo Walkman, l’autoradio estraibile e la segreteria telefonica chi li ha conservati?
Solo tu!, rispondono in coro i famigliari, ai quali è proibito avvicinarsi ai miei tesori vintage, soprattutto nei giorni della raccolta differenziata. Eppure – provo a spiegare ogni volta – è importante salvare alcune testimonianze del passato recente. Attraverso quegli oggetti, in fondo, è passata la vita. Alcuni hanno acceso passioni, diluito le delusioni, accompagnato le nostre giornate. Buttarli via sembra crudele. Meglio conservarli e, ogni tanto, sbloccare i ricordi. Marcel Proust ricorreva ai biscottini (madeleines). Perché noi non possiamo utilizzare un mangiadischi? Sempre ricerca del tempo perduto è.
Cassette e compilation
C’è di più. Molti oggetti sono collegati tra loro. Il mio registratore portatile Philips a mattonella anni ‘70 non si è mai separato da alcune cassette autoprodotte (Basf C90!). Registravano canzoni dalla radio, dai nostri Lp, dai dischi degli amici, con furore artigianale. Non siamo mai andati in galera perché – a differenza dei napoletani fratelli Frattasio (Mixed by Erry, guardatelo su Netflix!) – ne facevamo un uso personale. Una volta create le compilation, le riproducevamo fino alla consunzione. Soprattutto nell’autoradio. Estraibile, antifurto. Un marziano che fosse sceso sulla terra nel 1975 sarebbe rimasto sbalordito. I ragazzi italiani giravano con un’autoradio sottobraccio. Qualcuno, ogni tanto, concedeva l’altro braccio alla morosa.
Ognuno aveva i suoi cantanti e i suoi gruppi preferiti. Solo un nome otteneva l’unanimità: Lucio Battisti. Conoscevamo le sue canzoni e memoria, e i testi di Mogol finivano per diventare i sottotitoli delle nostre giornate. A volte li prendevamo alla lettera. «Cantine», per esempio, non era un termine generico per indicare un locale bohémien. Le nostre cantine erano cantine: moralmente, climaticamente, catastalmente. Quando Battisti sussurrava «E la cantina buia dove noi / respiravamo piano» (La canzone del sole) descriveva una situazione reale. Se avessimo respirato forte tutti insieme, avremmo esaurito l’aria.
Anime semplici
Eravamo, pensandoci adesso, anime semplici. Vendo casa – altra magnifica canzone di Battisti-Mogol, portata al successo dai Dik Dik nel 1971 – è stata la colonna sonora della mia quarta ginnasio e dei lenti a luci spente. Non indicava un precoce interesse al mercato immobiliare, ma un inno ai rovesci sentimentali che ogni quattordicenne ritiene di sperimentare per primo nella storia dell’umanità. Per fortuna il testo conteneva anche alcune simpatiche distrazioni. Quando ascoltavo «Un panino, una birra, e poi / la tua bocca da baciare» mi chiedevo ogni volta: deglutire prima, no?
Una delle canzoni di Lucio Battisti cui sono più legato, La collina dei ciliegi, compie quest’anno mezzo secolo. Era il singolo tratto dall’album Il nostro caro angelo (1973): un cantico della libertà individuale, un invito a non farsi schiacciare dalle convenzioni sociali. Questo lo capivamo. Non ci passava per la testa che il verso «...planando sopra boschi di braccia tese» fosse un’allusione ai raduni fascisti, come abbiamo letto e sentito poi. I fascisti c’erano, anche a scuola, ed erano riconoscibili dagli occhiali a specchio, indossati forse per nascondere sguardi non troppo intelligenti. Ma che Lucio Battisti inneggiasse ai saluti romani, be’, sembra francamente assurdo. Anche perché l’album precedente (Il mio canto libero, 1972) portava in copertina una selva di braccia tese verso l’alto. Come fanno le persone quando sono felici, non i camerati nei raduni (a proposito: non sono vietati?).
Sedili ribaltabili
Altre volte la decrittazione era meno facile. In sostanza: la canzone era incantevole, ma conteneva qualche passaggio oscuro. Torniamo a Il mio canto libero. A un certo punto Battisti canta: «E vola sulle accuse della gente / a tutti i suoi retaggi indifferente». Qualsiasi adolescente era consapevole che il vocabolo «retaggi» avrebbe messo in fuga le ragazze. Ma capiva l’invito contenuto nella frase: fregatene, non farti condizionare dal giudizio degli altri. Un altro verso, poco dopo, suonava ancora più enigmatico: «La veste dei fantasmi del passato / cadendo lascia il quadro immacolato”. Quale quadro? In camera, tutt’al più, appendevamo i poster.
Altri versi di Battisti-Mogol erano meno misteriosi. Per un ragazzo di Crema, ad esempio, la parte agricola era familiare. «Le biciclette abbandonate sopra il prato e poi / Noi due distesi all’ombra / Un fiore in bocca può servire sai / Più allegro tutto sembra» (La canzone del sole): escludo di aver masticato papaveri nei campi fra Sergnano e Pianengo, ma l’immagine era convincente. Così «Che ne sai tu di un campo di grano / poesia di un amore profano» (Pensieri e Parole): capivamo il concetto, apprezzavamo la poesia, ma preferivamo i sedili ribaltabili della Fiat 127 al fastidio delle pannocchie sulla schiena (per non parlare degli accidenti del coltivatore diretto cui avremmo rovinato il mais).
Il regno di Saturno
Riascoltate oggi in successione, le canzoni di Battisti – tutte belle, alcune splendide – fanno quasi tenerezza: sembrano lontane nel tempo come il regno di Saturno. Acqua azzurra, acqua chiara, «Ti telefono se vuoi / non so ancora se c’è lui» (non esistevano i cellulari). I giardini di marzo, «All’uscita di scuola i ragazzi vendevamo i libri» (oggi guardano il telefono). Mi ritorni in mente, «Quella sera /ballavi insieme a me / All’improvviso / mi ha chiesto / “Lui chi è?”» (ai tempi si riusciva a parlare ballando, oggi è impossibile). Fiori rosa, fiori di pesco, «Scusa, credevo proprio che fossi sola / Credevo non ci fosse nessuno con te / Oh, scusami tanto se puoi / Signore chiedo scusa anche a lei” (cinquant’anni fa la gente, ogni tanto, chiedeva scusa).
Eppure queste frasi – anche quelle anacronistiche, anche quelle un po’ retoriche – ci sono rimaste stampate nel cervello, insieme a molte altre. «Come può uno scoglio arginare il mare / Anche se non voglio, torno già a volare» (Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi...): che importa questo incrocio di metafore degno di un gabbiano distratto? Una giornata uggiosa: chi, da sobrio, avrebbe usato un aggettivo così? «Domandarsi perché quando cade la tristezza in fondo al cuore / come la neve non fa rumore» (Emozioni): se l’avesse scritto Giovanni Pascoli, avremmo sollevato obiezioni. Ma veniva da Battisti e Mogol, e ci lasciava a bocca aperta.
Qualcuno si chiede perché la recente poesia italiana abbia faticato ad arrivare al grande pubblico. Be’, perché giravano cantautori come Battisti (De André, Battiato, Dalla, De Gregori, Guccini, Fossati, Venditti, Renato Zero etc), e hanno occupato un grande spazio nell’immaginazione collettiva. La nostra educazione sentimentale è passata dai testi delle loro canzoni, così come l’apprendimento della lingua inglese è transitato dai Beatles, dai Pink Floyd e da Bob Dylan. Oggi, mentre scrivevo e ascoltavo (ovviamente) Lucio Battisti, sotto uno dei video presenti su YouTube ho letto questo commento: «Che fortuna essere stato adolescente quando c’eri tu».
Mi sembra un complimento bellissimo.